giovedì 31 dicembre 2020

Una breve, sommaria storia di Level 9 Computing, ché il 2020 ha rotto e almeno lo sfizio di un post nuovo di zecca ce lo vogliamo togliere.

Voi non lo sapete, ma lo scorso Dicembre un nuovo post stava per essere pubblicato su questo blog, conservato in frigo perché "troppo leggero". Niente game designer o software house; si parlava invero delle ultime spese retro per farci due risate pensando a come avevo buttato i soldi, progettando nel frattempo dove gettarne ancora nei successivi mesi per un 2020 da fine del mondo.

Poi, però, nel 2020 il mondo è finito sul serio.

Non sono la persona adatta per fare il resoconto di un anno simile, iniziato personalmente con un ricovero in ospedale a Capodanno e andato avanti come uno tsunami fino a ora, però forse sono il pagliaccio giusto per strapparvi un mezzo sorriso. Dai che il vaccino è arrivato, dai che se continua così uscirà pure quello con efficacia 115% senza olio di palma, dai che bene o male i videogiochi riescono sempre a tirare fuori quel minimo di escapismo che fa la differenza. 

Direi di iniziare dal principio.

Magari al giorno d’oggi date per scontato che il genere avventura sia il regno di Tim Schafer o Roberta Williams, ma inizialmente l’alternativa “intellettuale” all'obliterazione di flotte di alieni o ai lisergici labirinti da attraversare ingoiando pillole non prevedeva né avatar su schermo né tantomeno icone da incrociare con verbi, quella sorta di magia binaria che permetteva anche ai più arcigni detrattori delle interfacce testuali di conquistare la governatrice Elaine o interagire con scoiattoli bicefali, a seconda di personalissimi orientamenti che non sarò certo io a giudicare.

No, uno dei primissimi esempi di tale illuminata alternativa al classico sollazzo arcade risale al 1976, gloriosa annata che ha visto la nascita di importantissime eccellenze. Sì, ho quarantaquattro anni, ma procediamo. 

Parliamo ovviamente di Colossal Cave Adventure, fondamentale tassello nella storia dell'informatica scritto da William Crowther, programmatore e speleologo che pensò bene di basare la topografia della sua avventura sotterranea sulla mappa delle Mammoth Cave nel Kentucky, un sistema di caverne che aveva romanticamente esplorato in gioventù assieme a Pat, la sua prima moglie. Il viaggio era arricchito da elementi fantasy come draghi e parole magiche, oltre a una sana dose di umorismo nascosta nel parser testuale che rispondeva per le rime al giocatore di fronte alle richieste più assurde. Ancora più importante, Colossal Cave Adventure fu un evento fondamentale, dato che iniziò alla professione numerose menti illustri come la già citata Roberta Williams di Sierra Online. Alla lista degli “illuminati” si aggiunse Pete Austin, un appassionato di Dungeons & Dragons iscritto alla facoltà di psicologia presso la prestigiosa università di Cambridge, dove rimase un ulteriore anno per studiare le allora pionieristiche scienze informatiche. Un interesse condiviso dal fratello Nicholas, di cui parleremo tra un attimo.
Dicevamo: Pete conclude gli studi ed è preso benissimo dalle nuove divinità in silicio, tanto che programma un gestionale destinato alle banche per puro hobby prima di trovare lavoro presso Perkin-Elmer, una fabbrica di computer. Dopo aver fatto ciao ciao alla laurea in psicologia viene stregato dalla visione di Colossal Cave Adventure, e lì scatta il colpo di fulmine. Pete gioca e completa  l'avventura durante i momenti di pausa, coinvolgendo la sua famiglia in questa improvvisa infatuazione: l'immaginazione dei fratelli Nicholas e Mike viene utilizzata per generare ambientazioni e idee, e la sorella Margaret e il padre John sono rispettivamente appuntati responsabile della distribuzione e direttore dei progetti, laggiù nell’ High Wycombe, a ovest di Londra. 


I tre fratelli Austin.

Così nasce la Level 9 Computing, un nome scelto per suggerire l'alto livello di qualità del futuro portfolio, essendo il valore più alto ottenibile da una cifra a singolo zero. I primi titoli furono giochi arcade e utility per il Nascom, computer con 16k di memoria in kit di montaggio basato sul sempiterno Zilog Z80, uscito verso la fine degli anni Settanta. Il software ludico era prevedibilmente basato sui successi arcade del momento, mascherato da titoli ASSOLUTAMENTE ANONIMI quali Space Invasion, Asteroid e Missile Defence, mentre le utility mostravano un'invidiabile padronanza del codice come nel caso dell’Extension Basic, che arricchiva il BASIC del Nascom con nuove istruzioni. 

Pete non aveva però dimenticato il primo amore: era convinto di poter far entrare Colossal Cave Adventure nella risicatissima memoria del Nascom, e per questo sviluppò l’A-code, un interpreter estremamente performante grazie a delle snelle routine di compressione del testo, l’ideale riversare un gioco simile all'interno di un hardware decisamente rudimentale. Ci volle un anno intero per sviluppare l’interpreter e permettere a Mike di realizzare il gioco, ma i risultati furono migliori delle più rosee aspettative. Colossal Adventure (1983) non era infatti una conversione nuda e cruda della fatica di Crowther, ma aggiungeva nuovi elementi come una mappa più estesa, che vantava la bellezza di duecento schermate contro le centotrenta del gioco originale. Alcuni oggetti vennero spostati per valorizzare un certo numero di ambienti inizialmente vuoti e privi di utilità, mentre il finale fu completamente rielaborato: nell’originale la caverna collassava dopo che il tesoro era stato faticosamente raggiunto, costringendo il giocatore a una corsa a ritroso per evitare di rimanere sepolto vivo, mentre nella nuova versione un buon numero di eventi originali come il salvataggio di un gruppo di elfi dona un maggior coinvolgimento a quella che era originariamente poco più di una semplice corsa all'oro. 


La prima incarnazione di Colossal Adventure...


Da qui lo strillo “over 200 locations” che faceva bella mostra di sé sulla confezione, un particolare che ci permette di aprire una piccola parentesi riguardo al packaging dei titoli targati Level 9 che, nei primi anni, cambiò con una frequenza considerevole. Per fare un esempio, Colossal Adventure debutta in una bustina di plastica con dentro la cassetta, un manuale di poche pagine, un foglietto pubblicitario che annunciava i prossimi lavori dei fratelli Austin e un modulo per chiedere un indizio, corredato da una busta da lettera decorata dal disegno di un avventuriero che invia un piccione viaggiatore, pregandolo di ritornare con un suggerimento (“come back with a clue”). 

Verso la fine del 1983 si passò alle iconiche scatole in cartone, con l’illustrazione in copertina circondata da un motivo raffigurante il logo L9 ripetuto diagonalmente, e manuali di istruzioni colorati a seconda della macchina. Nel 1984 lo stile cambia ancora una volta, con astucci in plastica nera al posto del cartone. Infine, più avanti, venne reclutato l’illustratore Godfrey Dowson, artista autodidatta che aveva inizialmente tentato di entrare nel mondo dei videogiochi con l’illustrazione per il gioco Mega Vault, commissionata dalla Imagine ma mai pagata né utilizzata.

A questo punto le istruzioni sarebbero state stampate sul retro di poster ripiegabili, rappresentati le illustrazioni di Godfrey. Tornando ai giochi, finita la gavetta con le conversioni arcade fatte in casa e portato finalmente Colossal Cave Adventure dai proibitivi mainframe agli ormai diffusi home computer, Pete e fratelli si buttarono su lavori originali. Adventure Quest (1983) è praticamente il seguito di Colossal Adventure, ambientato secoli dopo. Qui i passati ruolistici di Pete si fanno sentire, con il nord del regno in preda alla siccità e minacciato da una misteriosa presenza a capo di un esercito di orchi che elimina senza pietà chiunque venga mandato a indagare. Poi è la volta di Snowball, avventura testuale dove il giocatore deve evitare l’impatto dell’astronave Snowball 9 con una stella. Poiché gli Austin ricevevano un insospettabile numero di richieste d’aiuto da parte di videogiocatrici, il personaggio principale di Snowball si chiama Kim Kimberly, un nome che non ne lascia intuire il sesso in modo che maschietti e femminucce potessero immedesimarsi senza distinzioni. Il numero delle aree visitabili si aggira sulle settemila (!), sebbene molte locazioni vengono ripetute a oltranza all’interno di alcuni labirinti, differenziate dal solo colore. 

Questo era un po’ il tallone d’Achille della giovane e ingenua Level 9: tante stanze e schermate strombazzate sulle confezioni e nelle pubblicità, ma i loro giochi erano spesso lenti a causa del gran numero di zone da attraversare in cui non si faceva praticamente nulla. Insomma, realizzare mappe su un foglio a quadretti strappato dal quadernone di matematica era una cosa bellissima in quegli anni, un po’ meno se dovevi mappare settemila quadratini! 

Da lì in poi, i fratelli Austin stabilirono una regola d'oro: se un gioco poteva essere completato da cima a fondo conoscendo la soluzione in mezzora o giù di lì, allora l’equilibrio tra il numero di stanze e gli enigmi sarebbe stato perfetto. Un compromesso benvenuto tanto dai giocatori quanto dagli stessi sviluppatori, dato che i playtest delle varie versioni dei giochi rischiavano di rubare veramente troppo tempo. 

Per concludere in bellezza un 1983 così produttivo ecco che arriva Dungeon Adventure, seguito di Adventure Quest e degna conclusione della trilogia iniziata con Colossal Adventure. Questi giochi sarebbero divenuti famosi come la Middle Earth Trilogy (paragone obbligatorio visto il gran numero di idee pescate dalla magnum opus di Tolkien come torri nere, orchi e demoni) e successivamente raccolti e riproposti da Firebird nel 1986 con il nome collettivo Jewels of Darkness, rivisti e abbelliti da schermate grafiche. 


... e la sua versione rivista e corretta per la compilation Jewels of Darkness.


Level 9 era quindi in piena espansione grazie alla versatilità del suo interpreter a-code, che aveva permesso di adattare le avventure fino a allora ideate dai fratelli Austin su macchine come l’MSX, il Commodore 64 e l’Oric. Dopo il trascurabile Lords of Time (1983), degno di nota per la realizzazione da parte di Sue Gazzard, fan dichiarata del lavoro degli Austin, i ragazzi tornarono nell’universo fantascientifico ideato per Snowball con Return to Eden, il secondo capitolo di quella che sarebbe divenuta una nuova trilogia. Kim Kimberley era nuovamente della partita, stavolta accusata/o di omicidio. L’asticella della qualità viene alzata grazie all’inclusione di tematiche religiose e politiche, che elevano l'avventura rispetto alla solita caccia al tesoro lungo centinaia di schermate. Merito delle ispirazioni letterarie di alto livello come I, Robot di Isaac Asimov (nel gioco c’è un’intera città popolata da automi) o Deadworld 1 (Pianeta Impossibile nell’edizione italiana) di Harry Harrison.
Ma non solo: Return to Eden implementa per la prima volta nella storia di Level 9 timide schermate grafiche a corredo dell’interfaccia testuale. 

Timide per davvero, eh: su Spectrum occupano un terzo della metà superiore, tipo francobollo, mentre su Commodore 64 sono grandi il triplo. Qualunque sia stato il vostro sistema (rigorosamente con più di 32k di memoria) all’epoca, il succo era sempre quello: le immagini occupavano una misera manciata di byte, vero miracolo di programmazione tirato fuori dal cilindro di Mike assieme a una nuova revisione dell’a-code. C’era il trucco: le schermate erano composte da un numero prefissato di asset come alberi o nuvole che venivano richiamati di volta in volta, ma il risultato era comunque apprezzabilissimo e da allora la produzione Level 9 non sarebbe potuta tornare indietro, nonostante il quantitativo di nuove uscite all’orizzonte e le richieste di aiuto che costrinsero il pur volenteroso Pete a mandare in pensione i vecchi moduli che affollavano la buca delle lettere di casa Austin. Questi vennero sostituiti dalle clue sheet, soluzioni “intelligenti” scritte in modo tale da impedire che il lettore incappasse nella spiegazione di un enigma che non aveva ancora affrontato. 

Tra le uscite importanti è doveroso segnalare Red Moon (1985), dove Level 9 cerca di implementare alcuni elementi da gioco di ruolo nella più classica delle avventure testuali, vedi i punti ferita. Stavolta è il turno di David Williamson ad affiancare Pete nella creazione del gioco, aggiungendo alcuni elementi spassosi: l’acciaio blocca l’uso della magia, quindi se indossate un’armatura e volete salvare la partita capitate male, dato che l’opzione di salvataggio è un sortilegio a tutti gli effetti! 

E poi il 1985 finisce con il botto. The Worm in Paradise è il capitolo conclusivo della cosiddetta Sylicon Dream Trilogy, comprendente Snowball 9 e Return to Eden. Ambientato un secolo dopo gli eventi del precedente episodio, Eden è ora un pianeta completamente cambiato, che incarna lo spirito di un’utopica società senza crimine e ricca di risorse, con l’immancabile marcio ben nascosto sotto la facciata dorata. Il gioco è il più maturo e intellettualmente impegnato dell’intera produzione Level 9, e si permette l'ardire di espandere ulteriormente gli spunti filosofici e religiosi di Return to Eden: l’umanità colonizza pianeti in un’era in cui la scienza permette viaggi spaziali e un benessere mai visto prima, tuttavia, curiosamente, gli astri perfettamente adatti alla vita sono convenientemente vicini l’un l’altro. 

Il dono di Dio per i suoi figli o l’allevamento di un’entità che, prima o poi, tornerà a reclamare il suo bestiame? 

Il gioco è supportato dalla terza revisione dell’ormai intramontabile a-code, con un vocabolario che viaggia oltre le mille parole e routine ancora più snelle, tanto che al giocatore era concesso inserire gli input senza dover attendere per forza il lento caricamento delle schermate. E poi arrivano i sedici bit, e la situazione diventa improvvisamente incerta, perché nuove tecnologie non significano solamente nuove sfide, ma anche nuovi gusti da parte dei potenziali clienti. 

Ci arriviamo subito, giusto il tempo di aprire una parentesi riguardo le avventure create per la Mosaic Publishing, distributore fondato nel 1983 e famoso per i giochi su licenza letteraria e non come l’originale e controverso Yes, Prime Minister, basato sulla sitcom satirica del 1980 Yes Minister
Level 9 creò per loro The Saga of Erik the Viking (1984), basata sul libro di Terry Jones, star dei Monty Python, due titoli basati sul Diario segreto di Adrian Mole (1985/1986) di Sue Townsend e l’adattamento della popolare soap opera radiofonica The Archers, con tanto di testi forniti dagli scrittori della serie. 
Forse per venire incontro a un bacino d’utenza più vasto, questi giochi - a parte The Saga of Erik the Viking - sono simili a libro game, con scelte multiple al posto del tradizionale parser testuale. Chiusa la parentesi, il passo successivo fu firmare un accordo di distribuzione con Telecomsoft sotto l’etichetta Raibird, utile non solo per liberare la povera sorella Margaret da una posizione che cominciava a essere troppo onerosa, ma anche per tentare di invadere il mercato americano. Da qui una veste nuova di zecca per le trilogie Jewels of Darkness e Silicon Dreams, impreziosite da schermate grafiche inedite e finalmente disponibili su sistemi come Amiga e ST. 


Snowball, finalmente a sedici bit.

Nasce durante questa operazione l’amicizia con lo scrittore Peter McBride, che scrive la novella di 43 pagine The Darkness Rises a corredo della trilogia fantasy e l’analoga Eden Song per quella fantascientifica, buttando le basi per una collaborazione che andrà avanti per anni. Sotto questo nuovo vessillo, il primo e ultimo prodotto originale è Knight Orc (1987), avventura umoristica nei puzzolenti panni dell’orco Grindleguts, oppresso dagli umani e desideroso di rivincita. Il gioco gira sul nuovissimo sistema KAOS (acronimo anagrammato per Knight Orc Adventure System), scritto in C e decisamente potente, troppo per le versioni su cassetta che risulteranno prive delle schermate grafiche presenti su disco, ispirate alle illustrazioni di Godfrey Dowson. L’avventura è eccellente, divisa in tre capitoli ambientati in un mondo fantasy ricco di citazioni e ammiccamenti (quella riferita all’inizio de Lo Hobbit è particolarmente gustosa) che nasconde una realtà ben più particolare. 

Purtroppo l'unione tra i bug presenti nel gioco e l’inettitudine di Rainbird nel pubblicizzarlo fece scoppiare la bomba, e Level 9 si trovò improvvisamente senza un publisher in un mercato che stava cambiando come testimoniano le modeste vendite di Gnome Ranger (1987) e del suo seguito Ingrid’s Back (1988). Ottimi racconti a metà strada tra il fantasy classico e la satira sociale, ma al momento di far quadrare i conti il tramonto della cosiddetta interactive fiction appariva ormai ineluttabile.

Lancelot (1988, pubblicato per Mandarin, affiliato di Database Publications) provò a ingolosire i giocatori con la sua interpretazione del ciclo arturiano, aggiungendo come incentivo una sobria replica del Santo Graal in oro del valore di cinquemila sterline, destinata a chi avrebbe risolto un particolare enigma nascosto, una vera e propria meta avventura che vide vincitore il giornalista John Sweeney


Un amore in salotto.


Poi, l'anno dopo, a Scapeghost toccò l'onere di chiudere definitivamente le danze. La storia di un detective defunto che deve ripulire il suo nome e vendicarsi del proprio assassino durante tre notti di indagini sovrannaturali è ricordata con affetto da noi anzianotti che, nel Dicembre di quell’anno, leggemmo un triste trafiletto nelle news della mai dimenticata K dove veniva dato l'addio alla classica produzione di Level 9. 

Quello che seguì fu lo HUGE (wHoley Universal Graphic Environment), un motore che portò alla creazione di Champions of the Raj, ovvero Defender of the Crown visto da francesi e inglesi nell’India del diciottesimo secolo. Un flop spaventoso, nel caso non ne aveste mai sentito parlare. 


Champions of the Raj venne accolto da un tripudio di pernacchie e bollato come un brutto imitatore della Cinemaware che fu.

Dato che l’ispirazione era palese, Level 9 ci provò in seguito alla corte della stessa Cinemaware, realizzando con il medesimo sistema la conversione di  It Came From the Desert per MS-DOS e ST, giusto in tempo per incrociare la bancarotta della compagnia di Robert Jacob, perdendo in questo modo qualcosa come centomila sterline!
The Legend of Billy the Kid sarebbe stato l’ultimo titolo sviluppato da Level 9, ma non venne mai pubblicato.


The Legend of Billy the Kid è stato ufficialmente abbandonato da Ocean, tuttavia una versione giocabile è reperibile su internet.


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