lunedì 31 dicembre 2012

Another year over...

Finito il 2012, nel bene e nel male, a cosa avete giocato quando la real life vi ha concesso i cinque minuti liberi? Bella domanda: personalmente a un sacco di retrogiochi, ché con un trasloco in ballo hai la miglior scusa del mondo per ricollegare decine di console e computer all'arrivo, per vedere "se tutto funziona ancora" (e questa la aggiungiamo al grande libro ufficiale delle scuse).
In quest'ottica un titolo spunta supremo: Robotron 2084. Non giocavo così tanto a Robotron nemmeno negli anni 80, inconfutabile prova che quando un'idea è buona, non ci sono limiti tecnologici abbastanza forti da tenerla imbrigliata e relegata nel passato. Salutiamo quindi - a parte l'ovvia versione MAME che, con il doppio sick dell'amato/odiato pad Microsoft, è la morte sua - la conversione per Lynx, gran Visir della filosofia "un'altra partita e poi smetto", nonostante il sistema di controllo per forza di cose inadeguato, sul quale però si chiude un occhio volentieri. 
Grande Eugene Jarvis, la Time Machine sul prossimo TGM è tutta tua; è stato un piacere.
Per quanto riguarda i giochi nuovi ne ho assimilati parecchi: vi lascio qui una lista di quelli che mi hanno divertito maggiormente, in amicizia, così magari se ce ne sono altri che vi sono piaciuti e mi sono sfuggiti me lo fate sapere nei commenti, su faccialibro, via mail o telepaticamente, come volete. 

Ah, buon 2013 a tutti.

I dieci titoli del 2012 che dovresti giocare, secondo me.
in ordine rigorosamente sparso

Far cry 3


Dopo un primo episodio in bilico tra il giocone e il benchmark e un secondo, candidato al titolo di avatar della noia, Ubisoft centra il bersaglio con un titolo che prende ispirazione un po' ovunque, ma restituisce un'esperienza dove tutto funziona come si deve. Un'isola da esplorare in lungo e largo tra decine di missioni, personaggi carismatici e la natura selvaggia, che magari sarà anche una madre prodiga di doni ma, quando un appostamento va in malora perché una tigre da due quintali ha deciso che era ora della colazione, un po' la mandi a cagare. Doppiaggio in italiano stratosferico specialmente per Vaas Montenegro, il cattivo che amerete odiare. Momento incazzatura supremo: l'alimentatore del PC che saluta mentre mitragliavo uno squalo, ché dovevo costruirmi un portafogli più capiente. Momento fregatura supremo: nonostante lo abbia iniziato su PC, me lo regalano a Natale per PS3, uno di quei regali che non puoi riciclare. Oh, è bello anche su console.

Legend of Grimrock

Ne abbiamo parlato da queste parti, quindi risparmio i caratteri: il ritorno in grande stile dei dungeon crawler a caselle in un gioco che ho spolpato in una settimana scarsa giocando a ritmi superumani, tanto è bello. Ora con Steam Workshop i modder si stanno scatenando come previsto, con decine di nuove segrete pronte per essere esplorate. Erano anni che aspettavo di rituffarmi in uno dei miei generi preferiti.

Zombie U

Zombie U è un po' come quella compagna del liceo forse non bellissima, ma con con cui stavi troppo bene assieme e che magari poteva diventare qualcosa di più importante. Titolo di lancio per la nuova macchina Nintendo da parte dell'attivissima Ubisoft, presenta meccaniche survival horror che funzionano davvero, altalenando nemici davvero spaventosi (un morso e sei fuori dai giochi, pronto per infoltire i ranghi dei non morti) ad un uso convincente del pad WiiU, strumento tuttofare con cui cercare rifornimenti, tenere d'occhio mappa e inventario, risolvere enigmi nonché far saltare allegramente i nervi, con quel diabolico radar in grado di aumentare il battito cardiaco ad ogni maledetto bip. Giocare ZombieU vuol dire provare tensione vera, paura di quello che può nascondersi dietro ogni angolo e a volte perdere il controllo, consumando un caricatore alla cieca quando i morti viventi incalzano. Il tutto in modo sottile e snervante, senza espedienti tipo cani zombi che sfondano improvvisamente le finestre, per capirci. Il fatto che i rifornimenti persi debbano essere recuperati ad ogni "reincarnazione", pena la perdita definitiva di tutto quello che si era faticosamente raccolto stile Dark Souls, la dice lunga sul potenziale di ZombieU, ma una realizzazione tecnica appena discreta e un sistema di combattimento piatto come pochi ne limitano la bellezza. C'è solo un'arma corpo a corpo da usare nel gioco, tra l'altro non potenziabile: quasi ogni incontro si svolge con quattro colpi in testa e uno spiattellamento finale per concludere, un iter che diventa noioso e prevedibile dopo le prime ore. Ci sono parecchie armi da fuoco, ma la scarsezza di munizioni spinge sempre e comunque a preferire l'odiata mazza da cricket. ZombieU non è una Killer Application per Nintendo, nossignore. Street Fighter 2, Lords of Thunder e Thunderforce IV: queste erano KA; ZombieU è un gioco molto buono, ma non è quello che spingerà la gente a far man bassa della nuova macchina. Ha tuttavia un potenziale enorme, che mi auguro di gustare appieno nel seguito.

Retro City Rampage

Lo abbiamo aspettato per anni e alla fine non è stato apprezzato da molti, con le sue missioni che si riassumono inequivocabilmente in "vai da A a B, uccidi tutti e torna alla base". Io ne vado pazzo per via dello stile retro e delle citazioni, spalate in quantità industriale in faccia al giocatore. Disorientanti nella loro abbondanza e commoventi per chi gli anni 80 li ha vissuti di persona con gli occhi di un ragazzino, in fissa con videogiochi, cinema, musica e televisione. Poi diciamo la verità, la missione ispirata ad Impossible Missione della Epyx mi ha praticamente venduto da sola il gioco, ma qui Brian Provinciano ha colpito con cattiveria un mio punto debole. Ci sono anche i saldi di Steam al momento, quindi decidete da soli se questo GTA in salsa 8 bit vale i soldi che chiede. Momento incazzatura supremo: il gioco disperso senza giustificazione sul PSN europeo, con tanti saluti alla mia nobile intenzione di giocarlo su Vita.


Borderlands 2

Esempio perfetto di come deve essere fatto un "more of the same": Gearbox riprende il predecessore e lima adeguatamente tutte le imperfezioni, consegnandoci un titolo che non stravolge nulla della vincente formula originale, ma la migliora con sapienza. Dieci e lode per un doppiaggio italiano da antologia, specie per la figura di Jack il bello, il nuovo antagonista. Si presenta come un cattivo da operetta il nostro jack, tra battute sboccate e un ego di quelli antipatici, ma andando avanti la questione con lui diventa più personale, la tensione cresce e dopo lo scontro finale ti ritrovi con un sorriso compiaciuto sulle labbra, dopo aver sparato l'ultimo proiettile. Con il rischio di farmi mandare a cagare dalla razza umana, dico che Jack è uno dei cattivi più interessanti dai tempi di SHODAN.
Ah, ci sono i soliti milioni di armi da fuoco, niente paura.

Dragon's Dogma

Anche di questo abbiamo già parlato quindi vi rimando qui, che si è fatta una certa ora. Da notare che, con il rilascio della difficoltà aggiuntiva via DLC gratuito, forse il NG+ ha ora un senso. Non so, mi è venuta la curiosità: se la preparazione del cenone non ruba troppo tempo quasi quasi mi faccio un giro volentieri nel pomeriggio. Niente auguri di buon anno al mio amico che ha abbandonato il gioco dopo il prologo a causa dei cali di frame, negandosi il piacere di una delle esperienze fantasy più belle dell'anno. Attendiamo, tra l'altro, il DLC Dark Arisen: Capcom ha già detto che Dragon's Dogma verrà ulteriormente sfruttato durante l'anno che verrà e questo non è affatto un male, considerando che per giocare a Dark Souls 2 dovremo aspettare il 2014...

Transformers: Fall of Cybertron

Di questo non ne abbiamo parlato, anche perché ne ho curato la recensione sulle pagine di TGM dopo averlo finito su 360 e PC, quindi ero in zona indigestione. Ma è il miglior gioco basato sui robot Hasbro, c'è una lunga campagna che alterna le forze degli Autobot a quelle dei Decepticon, ora i personaggi hanno abilità distintive, la modalità multigiocatore Escalation è divertentissima e, sopratutto, SI USA GRIMLOCK CHE SPACCA TUTTO, DIVENTA TIRANNOSAURO E MASTICA I DECEPTICON. Se eravate fan dei Transformers negli anni 80, l'ultima frase dovrebbe bastare per candidarlo al titolo di gioco dell'anno; tutti gli altri sappiano che FOC rimane comunque un signor sparatutto in terza persona.

LEGO lord of the Rings

Ho un amico che lavora per Traveller's Tales, conosciuto anni fa sul forum di Retro Gamer. Ogni tanto riesco a carpire qualche informazione in anteprima, ma sull'adattamento a base di mattoncini della trilogia di Jackson non avevo molte curiosità, poiché la formula ha iniziato a scocciarmi da qualche anno. Il suo commento però fu qualcosa tipo "just wait man, this one's gonna be awesome" e devo dire che non aveva torto: se come me ne avete le tasche piene di mattoncini colorati, dovreste dare una possibilità all'avventura di Frodo e compagni. La Terra di Mezzo da esplorare in lungo e largo tra le varie missioni funziona molto meglio della caotica Gotham in LEGO Batman 2, offrendo molte quest secondarie con cui sbloccare un quantitativo assurdo di premi, da personaggi ad oggetti in Mithril con cui andare a caccia di tutti i segreti nascosti, e sono davvero tanti. Chi si spara i giochi a predifiato avrà a che fare comunque con un'avventura piuttosto lunga, che copre i tre film/libri con il solito humor tipico della serie LEGO (c'è anche un cameo di Peter Jackson nel Fosso di Helm), ma i perfezionisti avranno da giocare per settimane alla ricerca di tutto quello che il titolo nasconde.

The Walking Dead

Se dovessi nominare il gioco dell'anno, la serie di Telltale sarebbe tra le prime scelte. Ne abbiamo parlato poche settimane fa e continuo a raccomandarla a chiunque. Il primo episodio è anche gratuito su IOS, anche se vi indirizzo umilmente sulla versione PC da recuperare ora, in extremis, prima che finiscano i saldi di Natale di Steam.

Mass Effect 3...

...con il suo finale da putiferio, ma che ho trovato assolutamente impeccabile. Personalmente è stata la degna conclusione di una delle più belle serie di fantascienza videoludiche  e non, una di quelle che lascia in bocca il sapore della megaproduzione di alto livello. Raccomandarlo è una formalità per tutti quelli che hanno concluso i capitoli precendenti e sono moralmente obbligati a vedere come finirà la lotta contro i Razziatori; gli altri possono sempre tuffarsi in uno degli universi immaginari più riusciti di sempre con la Mass Effect Trilogy, in modo da giocare di fila tutti i capitoli: ammetto di essere quasi invidioso...

venerdì 21 dicembre 2012

Maldita Castilla - Locomalito, 2012

Vado pazzo per i giochi dello sviluppatore indipendente Locomalito al punto da considerarmi un fan: una produzione indie che guarda al passato con rispetto e sapienza, riuscendo nel non semplice compito di offrire divertimento vecchio stile senza commettere passi falsi.
Allo stesso modo adoro Makaimura (Ghosts'n'Goblins) e relativi seguiti in tutte le loro incarnazioni; ai tempi organizzavamo pomeriggi interi sulla conversione ad opera di Chris Butler su C64, monca quanto vuoi ma pregevolissima per noi ragazzini di allora, con una colonna sonora ad opera di Mark Cooksey (Ikari Warriors tra gli altri) che al confronto quella del coin-op è l'inno degli scout.

Completare un livello senza perdere una vita frutta punti extra, indispensabili nella caccia al punteggio che, per la croncaca, viene resettato ogni volta che si continua...
Adattamenti a parte, i tre capitoli del platform Capcom sono tra i miei giochi preferiti di sempre grazie alla loro miscela di tematiche fantasy, difficoltà piacevolmente impegnativa e realizzazione ad alti livelli; scegliere il preferito è difficile ma, se mi venisse puntata una pistola alla tempia, balbetterei terrorizzato Daimakaimura, Ghouls'n'Ghosts in occidente. Sarà perché dal 1988 in poi attendevo con gioia ogni titolo CPS1 dopo lo spettacolo che fu Forgotten Worlds, sarà che è probabilmente il miglior seguito che potessi augurarmi, ma principalmente perché quella conversione per Megadrive era pazzesca, senza mezzi termini.
Oh, magari non arcade perfect se analizzata con il senno di poi, ma per la prima volta mi rendeva il felice possessore di un coin-op nella sacralità della mia cameretta.
Maldita Castilla è un omaggio all'epopea di Arthur e adotta il sistema di controllo di Daimakaimura (sparo verso l'alto e verso il basso, durante un salto) in uno schema di gioco più semplice e diretto, come nel predecessore: niente armatura d'oro da caricare à la R-Type o il doppio salto di Chomakaimura per intenderci.
Il tutto in sei livelli caratterizzati da un'estetica che guarda alla tradizione europea, ambientando il viaggio del nostro Don Ramiro tra miti e leggende del vecchio continente: Maldita Castilla ha uno stile tutto suo, macabro e opprimente con una spruzzata di satanismo verso la fine. C'è poco da scherzare, come lascia intendere la presentazione: il regno di Castiglia è assediata dalle forze degli inferi e il re invia i fedeli Don Ramiro, Quesada, Mendoza e Don Diego per riportare la pace, sebbene nel gioco gli altri cavalieri siano poco più che comparse.

A Locomalito piace parecchio Willow, a quanto pare.
Al povero protagonista toccherà quindi il lavoro sporco, affrontando mostri e nemici particolarmente ispirati, come anticipavamo prima. Perché di cavalieri senza testa, arpie e manticore i videogiochi sono pieni, ma fa uno strano effetto combattere la Tarasca, il Nuberu o un Don Chisciotte più folle che mai.
Don Ramiro fortunatamente sa il fatto suo: oltre alle movenze di Arthur, il barbuto eroe può sopportare tre colpi prima di perdere una vita (no, niente boxer a cuori...) e utilizzare quattro armi: i coltelli sono lo strumento di base, e corrispondono in tutto alle lance di Arthur, le falci sono rapidissime ma a corto raggio, le asce compiono una traiettoria parabolica ma colpiscono duro mentre le bolas sono lente, coprono un'area maggiore e possono attraversare alcune pareti. In aggiunta è possibile raccogliere e usufruire allo stesso tempo di alcuni accessori, da una sfera di cristallo per scrutare ricompense nascoste a stivali per saltare più in alto.
Tutto l'arsenale è sapientemente descritto nel manuale in .pdf, illustrato "stile diario di Henry Jones" da Jacobo Carcìa, disponibile sul sito ufficiale che vi invito a visitare subito anche perché il gioco, come tutta la produzione Locomalito del resto, è gratuito.

Ci vorrà ben più di un mulino a vento per vincere questo scontro.
In ogni livello è celata una delle lacrime di Ouma, gemme vitali per aprire le porte degli inferi e accedere al sesto stage; andare quindi scrupolosamente a caccia di segreti è importante quasi quanto districarsi tra le orde degli inferi. Inutile dire che questo aprirà la strada al finale migliore, un traguardo a cui ambire limitando nel frattempo il numero dei "continue" utilizzati durante l'avventura: ebbene sì, anche loro incideranno sulla conclusione della vicenda, sebbene la difficoltà non raggiunga quella dell'illustre ispiratore.
Tecnicamente siamo su ottimi livelli: la grafica fa del suo meglio per ricreare lo stile arcade di fine anni 80, con tanto di overlay per simulare un monitor "vissuto" da sala giochi con scanlines e angoli arrotondati e sporchi; allo stesso modo il design di mostri e nemici convince appieno, mentre i livelli citano con successo alcuni classici del passato, come il combattimento  sul carretto in corsa di Willow.
Centro anche per il sonoro, con tracce composte dal musicista Gryzor87 (già compagno d'armi di Locomalito nello sparatutto Hydorah) su emulazione del chip Yamaha YM2203 per un omaggio ancora più fedele al chiptune di una volta.
Ma nella gloria globale è la giocabilità a spuntarla sopra tutto il resto: i comandi rispondono perfettamente e un rilevamento di collisione eccellente permette di compiere vere acrobazie nelle situazioni più anguste, come ad esempio l'inferno di spuntoni che nasconde la lacrima del quarto livello.

Ogni due stage c'è la possibilità di guadagnare punti e vite extra centrando dispettose cavallette in questo schermo bonus.
Gli spagnoli non se la cavano male con la programmazione, invero sono sempre stati rimarchevoli, basti pensare alla Dinamic con i vari Freddy Hardest, Navy Moves e Satan all'epoca degli otto bit: titoli oggettivamente ben fatti sopratutto su Amstrad CPC, computer che spopolava nella penisola iberica. Il neo era la proverbiale difficoltà, ma Locomalito eredita dai suoi storici compaesani la padronanza del codice aggiungendo una sfida ben dosata in tutti i suoi giochi.
Prendi nota Capcom: Maldita Castilla è l'omaggio più autentico mai scritto per Ghosts'n'Goblins.
Più ispirato di Gokumakaimura su PSP? Per il sottoscritto probabilmente sì.

martedì 11 dicembre 2012

Hands On: The Lost Cave - Andrea Babich & Aladar, 2012

Questa anteprima-un-po'-recensione-dai è stata scritta dopo aver giocato ad una versione preliminare di The Lost Cave, gentilmente fornita da Andrea. Nella sua professionalità mi ha già spedito un codice "nuovo", dopo neppure ventiquattro ore dal precedente! Sul sito del progetto, che potete raggiungere qui, troverete sempre l'ultimo aggiornamento.

Era il 1989, se ricordo bene.
Decisi di accompagnare un mio amico a Lanciano, vicino alla mia Ortona, in un negozio dove comprava abitualmente giochi per l'Amiga, sull'originalità dei quali magari al momento non ci soffermiamo.
Mi convinse il fatto che alla stazione, dove si prendevano gli autobus, c'era Super Bubble Bobble, qualunque cosa fosse.
Che con il senno di poi magari può sembrare una sciocchezza, ma per un ragazzino di tredici anni l'idea di poter giocare alla -presunta- versione potenziata del suo videogioco preferito era sufficiente per fare il biglietto e trovare posto sulla corriera pieno di aspettative, con le mille lire strette nel pugno pronte ad essere tramutate in monetine.  Per giocare ovviamente persi l'autobus del ritorno, accumulando un ritardo considerevole per la gioia di mia madre, povera donna, oramai rassegnata ad avere un figlio disperatamente dipendente dai videogiochi: succede anche nelle migliori famiglie, dicono.


Il fatto è che sono stato sempre innamorato del capolavoro di Fukio "MTJ" Mitsuji, lo considero uno dei più geniali videogiochi di tutti i tempi come testimoniano le migliaia di partite accumulate in sala giochi e sui sistemi casalinghi, nutrendo di gettoni reali e virtuali lui e i suoi seguiti. 
Ricordo con affetto la recensione di Parasol Stars su Zzap! a cura dell'Aulettone nazionale: veniva menzionata erroneamente una versione arcade e passai un anno a tormentare il gestore della mia sala giochi di fiducia, il quale non sapeva dove diavolo andarmela a rimediare quella dannata, inesistente jamma!
È un gioco geniale, Bubble Bobble: ingannevolmente semplice grazie alla sua grafica colorata e  allo storico accompagnamento sonoro firmato Zuntata, nasconde un livello di complessità notevole tra segreti e tecniche da padroneggiare. Un esempio di game e level design da cui trarre ispirazione come lo erano i videogiochi di allora, o quantomeno quelli che hanno superato la prova del tempo, venendo considerati classici ancora oggi.
Se Bubblun e Bobblun sono forse familiari alle nuove generazioni principalmente per le loro apparizioni nella serie Puzzle Bobble, nel 1986 avevano conquistato il popolo dei videogiocatori arcade, attirando giovani di entrambi i sessi grazie a giocabilità e originalità, come ricordava lo stesso Fukio Mitsuji durante una storica intervista per CVG
Mitsuji-San ci ha lasciato nel Dicembre del 2008, esattamente quattro anni fa: una morte passata vergognosamente inosservata.

Il migliore regalo di Natale che possiate farvi.
Avanti veloce fino ai giorni nostri: Andrea Babich è un nome familiare per tutti i videogiocatori nostrani, essendo appassionato di videogiochi e maestro della sacra arte del retrogaming, con all'attivo un record a Bombjack degno dello IASP, per i fanatici dei punteggi di vecchia data.
Ha anche militato con successo per diverse riviste del settore e siti videoludici, portando a casa in tempi recenti un'intervista dall'indiscutibile valore con Ryuichi Nishizawa, uno dei fondatori della Westone, citata anche su Hardcore Gaming 101. Addirittura lavora per un'importate realtà come Ubisoft;  stupisce quindi come diavolo faccia a trovare il tempo per progetti come il qui presente The Lost Cave, un'opera senza fine di lucro portata avanti con dedizione e pazienza nei ritagli di tempo. La premessa è apparentemente semplice: tralasciando le versioni occidentali, Bubble Bobble è stato convertito per un gran numero di console e computer nella terra del sol levante, presentando spesso livelli inediti, realizzati dalla stessa Taito a cura degli allievi di MTJ. All'epoca, si sa,  le conversioni erano spesso arricchite da caratteristiche extra rispetto agli originali per giustificarne il prezzo, come abbiamo detto parlando di Kishimoto e del suo Kunio-kun su NES.
The Lost Cave recupera un centinaio di questi livelli dimenticati o presunti tali dalle versioni Gameboy, Master System, Famicom o Gameboy Color e li restituisce al loro ambiente naturale: le sale giochi.

Il primo livello della versione Gameboy, ma a colori, senza scrolling e con una pioggia di piccoli portatili Nintendo per la gioia di Kenobit!
The Lost Cave è un mastodontico hack di Bubble Bobble, concepito come kit di conversione della scheda originale previa opportuna riscrittura, tuttavia tranquillamente und legalmente giocabile sul MAME, a patto di possedere almeno una delle tante versioni del gioco contenuta in centinaia di raccolte.
Tutto stupendo sulla carta; in pratica, però, la situazione è ben differente. Facciamo quindi conoscenza con Aladar, un nuovo volto della nostra storia: Babich lo ha definito come un "elusivo programmatore romano" incontrato casualmente su un forum, quindi zitto e buono non farò ulteriori domande. Basti sapere che ha in progetto una conversione di Bubble Bobble su PC Engine, ovvero la mia console preferita di tutti i tempi; condizione sufficiente per considerarlo un grande tra i grandi, ma c'è di più. Aladar ha messo mano al Patch-a-Bobble di Karl Stenerud, un editor di livelli per il capolavoro Taito, creando un aggiornamento ad-hoc per correggerne i bug conosciuti e fornendo in questo modo a Babich gli strumenti per lavorare sul gioco. Sono quindi seguìti  interminabili giorni impegnati per giocare, catalogare e scegliere accuratamente i cento livelli che hanno sostituito quelli originali nella gloria che gli compete. Perché se in foto Bubble Bobble per Gameboy è bellissimo, dal vivo la sua natura a scorrimento -obbligata dal minuto schermo del portatile Nintendo- non ha mai reso onore al gioco. Troppo facile cadere inavvertitamente su un nemico, troppo fastidioso non vedere la posizione di bolle e bonus, almeno fino ad ora.
Il dinamico duo però è andato ben oltre, non limitandosi a presentare una "semplice" collezione di livelli.
Nuovi oggetti presi dalle versioni domestiche sono stati inseriti e ridisegnati per adattarsi agli standard arcade; allo stesso tempo la nuova versione dell'editor ha permesso di implementare con fedeltà i pattern di movimento originali per le bolle, un lavoro certosino che avrà richiesto ben più di una notte insonne.
Non finisce qui: l'entusiasmo e la passione, uniti alle spiccate capacità di Aladar e alla competenza di Babich, hanno rivoltato come un guanto gli intricati meccanismi del gioco creando nuovi segreti e modificando le modalità per attivare i vecchi: al momento nessuno conosce, autori e betetester a parte, le condizioni per raggiungere il vero finale. Il tutto per ricreare l'aura di mistero originale: Bubble Bobble appartiene ad un'epoca oramai passata, dove il passaparola tra gli appassionati donava un sapore magico ai bar e alle sale giochi che ricordiamo con affetto, quando aspettavi Zzap! o Videogiochi ogni mese, alla ricerca di qualche trucco inedito. Ricordate le strategie per la versione arcade del gioco, presenti sul secondo TGM targato Ottobre 1988? Per me furono uno dei motivi per comprare quel numero, ché cinquemila lire per un ragazzino erano soldi.

Tutti quei Mighta potrebbero diventare un problema senza l'aiuto di qualche caramella...
Ora nell'epoca di Internet le informazioni sono a portata di click mentre voci e supposizioni vengono confermate con dissacrante velocità; gli autori desiderano quindi tenere nascoste, almeno per ora, le modalità per svelare i più reconditi misteri che ci aspettano in fondo alla caverna perduta. Personalmente sono a conoscenza della strategia per raggiungere il primo schermo segreto, ma tengo la bocca chiusa; diciamo che se il buongiorno si vede dal mattino, per conquistare questa nuova versione di Bubble Bobble sarà necessario darsi da fare come venticinque anni fa. Alla buonora, aggiungerei.
The Lost Cave esce l'undici Dicembre 2012, quattro anni dopo la morte di Fukio Mitsuji e non potrebbe esserci modo migliore per ricordare, omaggiare e apprezzare ancora una volta la sua eredità, oggi come nel 1986.
Per quel che mi riguarda, con lui non ho ancora finito dato che cercherò di fargli onore nel prossimo TGM, tra le pagine della Indie Zone; voi intanto fatevi uno stupendo regalo di Natale e visitate il blog del progetto adesso: scoprirete che è nuovamente l'inizio di una storia fantastica.

lunedì 3 dicembre 2012

The Walking Dead - Telltale 2012

Non me ne vogliano quelli che identificano The Walking Dead con Michonne che affetta zombie con la grazia di Goemon sugli schermi della AMC ma, onestamente, delle tre serie trasmesse ho assistito solo al pilota della prima. Al contrario, ho seguito il fumetto originale di Robert Kirkman dai primi numeri, consigliato non ricordo neppure da chi 'anta anni fa, quindi il mio parere sull'ultima fatica di Telltale potrebbe non cogliere eventuali citazioni  televisive. Perché, almeno per gli amanti dell'opera originale, The Walking Dead è una delle migliori esperienze dell'anno

Scommettiamo che prima del quinto capitolo sarete affezionati a questa coppia?
Occhio, l'uso dei termini è importante: è un'esperienza imprescindibile ma, come gioco, potrebbe non soddisfare chi cerca un alto grado di interazione. Dopotutto, ultimamente con Telltale bisogna andare con i piedi di piombo: dopo i festeggiamenti di rito per aver riportato sulle scene alcuni marchi particolarmente amati dal passato delle avventure dinamiche, la casa di Grossman e soci ha commesso un paio di passi falsi mica da ridere con le licenze di Ritorno al Futuro e Jurassic Park. Particolarmente deludenti i dinosauri di Crichton e Spielberg, trasportati sui nostri monitor scimmiottando le meccaniche di Heavy Rain e della produzione di David Cage in una storia originale priva di mordente e dallo scomodo retrogusto da laser game.
Tornando al nostro titolo, ho atteso quindi la pubblicazione dell'ultimo capitolo guardando con diffidenza i pareri positivi con cui la saga veniva accolta. A quel punto i saldi autunnali di Steam hanno dato il colpo di grazia alla mia resistenza.

E meno male aggiungerei, perché The Walking Dead, come dicevamo, fa centro alla grande.

Tecnicamente è onesto con delle buone texture che garantiscono un aspetto "da fumetto", addobbando un motore grafico che altrimenti mostrerebbe il fianco nelle animazioni e negli spazi aperti come la città del quarto capitolo, desolata sì ma per i motivi sbagliati.
Chissà come renderebbe una grafica in bianco e nero stile MadWorld su Wii o come nell'indie Gunman Clive, con occasionali pennellate di vermiglio per ricreare l'atmosfera originale e sottolineare le situazioni più violente: quasi quasi poi telefono a Grossman e propongo.
L'audio invece è fantastico, con un doppiaggio di alto livello che dona profondità e espressione ai personaggi compensando i limiti della componente visiva: degni di menzione (e lungi da ogni tipo di spoiler) sono Melissa Hutchinson e il popolare Dave Fennoy nei panni di Clementine e Lee, i due protagonisti a cui sarete destinati a affezionarvi, giuro.

Dave Fennoy che, ricordiamo, ha ricoperto ruoli sobri come quello di Rodin in Bayonetta.
Quello che rende grande TWD, a prescindere da audio, grafica o fatti tecnici, è da ricercare altrove.  Nel coinvolgimento emotivo, ad esempio, o nelle scelte da compiere - spesso con il cuore in gola - e il risultato a cui queste porteranno con il proseguimento della storia. Ogni decisione presa nei cinque episodi verrà ricordata capitolo dopo capitolo e sbattuta in faccia al giocatore prima o poi, con una puntualità non sempre opportuna.
Perché TWD non è una cieca carneficina di non morti, è un'opera che mette l'uomo in una situazione scomoda e precaria, dove gli assiomi della civiltà, per come la conosciamo, non sono più validi nello spiacevole caso di un'apocalisse zombi. Si vive sul filo del rasoio e, oltre ai morti, è necessario guardarsi anche dai vivi, amici o nemici che siano: a tale scopo il lavoro svolto da Telltale è esemplare, con personaggi ricchi di sfaccettature, immediatamente amabili o detestabili ma allo stesso tempo imprevedibili nelle loro sfumature, che verranno a galla a seconda delle scelte prese dal giocatore.

L'inizio del gioco richiama quello del fumetto. Stavolta però il protagonista è sul sedile sbagliato...
Proprio per questo TWD è un'avventura che sarebbe bene rigiocare almeno una volta, per vedere cosa succede scegliendo un nuovo approccio: parte della sorpresa svanisce, ovviamente, ma sarebbe un peccato ignorare il resto dell'intreccio narrativo tessuto dalle menti di Telltale. Un ottimo risultato anche perché, onestamente, gli enigmi sono molto semplici, con una manciata di locazioni  all'interno del singolo capitolo dove il backtracking è assente o comunque limitatissimo, con gli oggetti da utilizzare sempre a portata di mano assieme alla possibilità di ricominciare una scena immediatamente, se le cose andassero male. Perché il minimo sindacale di azione per un gioco con gli zombi c'è, ma serve principalmente a sottolineare la drammaticità dell'ambientazione piuttosto che a far scatenare i fan di Left 4Dead. Sono tutte sequenze scriptate dove muovere un cursore per mirare una martellata sulla testa del non morto di turno o sparare contro un'orda dei suoi compagni; non ci sono munizioni da tenere sott'occhio,  attacchi da evitare o erbe verdi da mandare giù, non c'è l'energia che cala e le armi, spesso di fortuna, sono sempre quelle che Lee si ritrova a portata di mano: questo non è un gioco d'azione, è un'opera narrativa interattiva che riesce a far onore al materiale ispiratore.

Click 'till she drops!

Volendo è possibile aumentare artificialmente la difficoltà all'inizio, scegliendo di nascondere hotspot e aiuti vari, ed è la strada che ho personalmente deciso di percorrere. L'unico neo è che a volte risulta frustrante andare a caccia del punto dove cliccare nelle situazioni più frenetiche; ho capito che devo afferrare quel fucile prima che faccia fuoco, ma dove diavolo devo puntare il mouse? Nulla di esasperante comunque, dato che il gioco permette anche ai più negati di ricominciare qualche attimo prima della morte.
Cosa rimane quindi alla fine dell'avventura, dopo circa dieci ore di emozioni? Un finale che sarebbe criminale raccontare, ma che potrebbe venire ripreso nella seconda stagione, già annunciata da Steve Allison e prevista per l'estate dell'anno prossimo. Per quel che mi riguarda mi è anche venuta voglia di recuperare le tre serie televisive, pensa te...

sabato 24 novembre 2012

Nekketsu Kōha Kunio-kun - Technōs Japan, 1986

Si diceva, discorrendo su Double Dragon Neon, che sarebbe stato bello parlare dell'uomo Kishimoto. Lo facciamo adesso, tralasciando però i lasergame creati sotto il vessillo Data East e usando come trampolino di lancio, invece, un titolo dall'affascinante sapore autobiografico. Perché Yoshihisa magari non ha pilotato un elicottero da guerra né ha scatenato il caos a quattro ruote come in Cobra Command o Road Blaster ma, in maniera simile a Kunio, ha realmente picchiato duro nella sua vita.

Il nekketsu del titolo, ovvero "sangue bollente", è un mantra tanto per ogni shonen manga che si rispetti, quanto per il movimento giovanile nipponico "yanki". Qui è anche il nome della scuola di Kunio.
Nasce il 17 Settembre 1961, un periodo di transizione culturale per il Giappone, ancora impegnato a sanare le ferite inflitte da una guerra mondiale finita nel peggiore dei modi. Il nonno Keiji, marinaio in servizio presso Okinawa, dopo gli eventi del 1945 si stabilisce a Tokio dove diventa padre di Isao, il futuro genitore di Yoshihisa e Yuki. In seguito alla guerra tutte le operazioni marittime militari vengono infatti fermate e il Giappone, non più costretto dalle ugenze belliche, può rialzare la testa e corciarsi le maniche, facendo ripartire l'economia e, allo stesso tempo, aprendo maggiormente le porte alla civiltà occidentale. Questo incide sulla formazione di Yoshihisa e Yuki: loro e i genitori sono ammaliati dagli spaghetti western di Giuliano Gemma come Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo, entrambi del 1965, ma anche gli incontri del colossale Mohamed Ali incollano la famiglia allo schermo. Il lato nekketsu di Yoshihisa viene alimentato anche dalla produzione autoctona, con anime classici come Ashita no Joe e Koijin no Hoshi, rispettivamente Rocky Joe e Tommy la stella dei Giants sulle nostre reti. La fanciullezza però finisce bruscamente per due motivi: in primis la violenza domestica del padre, dedito ad alcol e nicotina, Una situazione pessima, sopita dalla riservatezza che solo il popolo del sol levante può sfoggiare, ma tremenda tra le pareti di casa: Isao è morto nel 2007 a causa di un cancro ai polmoni. Il secondo motivo fu la passione per Bruce Lee, ardente, mesmerizzante e ispiratrice: alla fine del 1973 Yoshihisa e Yuki videro per la prima volta Enter the Dragon, e fu amore vero. Indiscusso campione di incassi in oriente, Enter the Dragon rimase al cinema per oltre sei mesi nelle sale di Tokio: Yoshihisa andava ogni Domenica a vedere il film, iniziando dal primo spettacolo e uscendo dopo l'ultimo, arrivando alla cifra di CENTONOVANTA visioni circa.

In effetti un filmone: e ora sapete anche da dove prendono il nome Roper e Williams, due dei nemici di Double Dragon.

Al cinema, senza videoregistratore, condensate una manciata di Domeniche: non so quanti di voi possono vantare un simile attaccamento verso il film del cuore, ma Kishimoto ha sbriciolato con nonchalance il mio record con Ritorno al futuro!

Non solo, un'altra grande passione sono i Bay City Rollers, tanto da spingere Yoshihisa a imparare la chitarra da autodidatta, ispirato da Eric Faulkner, e a sostare tutta la notte sotto l'Hilton di Tokio in attesa di conoscere i suoi idoli, destinati a suonare di lì a poco presso il prestigioso Budokan, un onore condiviso anni prima dai Beatles. Il sottotitolo "The Rosetta Stone" del terzo, oggettivamente pessimo Double Dragon, deriva dal nome del nuovo gruppo del chitattista Ian Mitchell. Quindi no, niente passione per l'archeologia.


Con il sangue rovente in corpo Yoshihisa fa impazzire i professori e combatte contro i gruppi delle scuole rivali, guadagnado la fama di furyo shonen, un ragazzaccio ribelle. Nonostante rimanga nell'animo un "buono" (nella sua biografia racconta di come lui e il suo rissoso gruppo abbiano rifiutato un invito da parte della yakuza), egli non può fare a meno di subire il fascino del movimento giovanile yanki, diventando un bōsōzoku, ovvero un teppista motorizzato, uno di quelli che creavano grattacapi alla polizia giapponese durante gli anni ottanta. Con oltre ottocento gruppi di centauri conosciuti nel 1981, lavorare come poliziotto in Giappone non doveva essere una passeggiata.

Una vita che sembra venir fuori da uno shonen manga;  tuttavia tra un pestaggio e l'altro va pazzo per i videogiochi come Space Invaders e Breakout e ama lo sport, diventando anche capo di un gruppo di ouendan. Il grande desiderio però è creare film all'altezza del suo mito Bruce Lee, e l'ingresso in Data East è visto come un prezioso lasciapassare per realizzare il suo sogno. Non a caso Cobra Command e Road Blasters sono ispirati ad icone della cinematografia americana come Blue Thunder e Mad Max. Il burrascoso passato, assieme alla passione per i combattimenti di Bruce Lee, vengono però trasportati in chiave ludica solo sotto Technōs Japan con Nekketsu Kōha Kunio-kun. I picchiaduro dell'epoca mancavano di qualcosa per Yoshihisa: il classico Karate Champ era un semplice kumite sportivo e Spartan X (Kung Fu Master) aveva uno schema di gioco simile ad uno sparatutto, dove un semplice pugno era sufficiente per far volare via i nemici.

Quel qualcosa era il nekketsu. Il brivido del combattimento selvaggio senza regole, senza quartiere e con il sapore di sangue tra i denti. Un picchiaduro, insomma, capace di trasmettere la sensazione di fare male.

In aiuto arrivò la conoscenza di Sato-san, il responsabile delle convincenti animazioni di Exciting Hour, un gioco di wrestling che lo aveva favorevolmente impressionato per l'ottima fisicità dei combattimenti.

Distribuito in occidente da Taito con il nome Mat Mania, è conosciuto dagli amici come "il wrestling con Darth Vader e Superman tra il pubblico". All'epoca si poteva, zitti zitti.

Il suo nuovo progetto venne sviluppato quindi con il nome di lavoro "Nekketsu Kōha" (duro dal sangue bollente) finché Yoshihisa non propose di chiamare il protagonista Kunio come omaggio a Kunio Taki, il carismatico presidente di Technōs Japan. Forse non tutti sanno che Kishimoto si è preso la briga di dare al suo eroe anche un'immaginaria data di nascita, ovvero 27 Novembre: il compleanno di Bruce Lee. Molte delle esperienze di vita descritte pocanzi finirono nel calderone: il primo boss, Riki, prende il nome da un ragazzo fortissimo e temuto che abitava nello stesso quartiere di Yoshihisa; allo stesso modo Shinji, il capo della gang di motociclisti nel secondo livello, è ispirato ad un amico con cui Kishimoto condivideva la passione per le moto. Anche loro sono basate su modelli reali che spopolavano tra i bōsōzoku come le CB400.




Nekketsu Kōha Kunio-kun fu un successo sin dal location test, tenuto presso la sala giochi Roller Tron nel quartiere di Takadanobaba, riscuotendo subito una fama tanto grande che  Technōs Japan venne contattata dalle forze dell'ordine che temevano un'invasione di yakuza e furyo shonen, nuovamente attratti nelle sale giochi dall'odore del sangue digitale dopo che per anni personaggi come Mario, Mappy o Mr. DO! erano riusciti a renderle luoghi amichevoli per i più giovani.

Merito anche del rivoluzionario sistema di combattimento che abbinava tre pulsanti al canonico joystick, adibiti al salto e agli attacchi a destra e a sinistra. Unito alla buona varietà di mosse tra combinazioni, proiezioni e, addirittura, la possibilità di picchiare in faccia un avversario atterrato, Kunio-kun trasmetteva una sensazione di violenza assolutamente nuova rispetto ai titoli dell'epoca.
Non per niente lo stesso Kishimoto, che aveva inizialmente optato per  assegnare ai pulsanti le funzioni di salto, calcio e pugno, dovette ripensare il tutto, reputando il gioco troppo difficile in fase di testing. Ma anche con la possibilità di distribuire i colpi a destra e sinistra Kunio-kun vanta un grado di sfida piuttosto alto nei suoi quattro livelli. Specie nell'ultimo le cose si fanno serie: i teppisti yanki fanno spazio a yakuza armati di coltello in grado di uccidere sul colpo, così come il boss finale con la sua rivoltella.

Una cattiva abitudine, quella delle armi da fuoco,  che ritorna nello scontro finale di Shin Nekketsu Kōha: Kunio-tachi no Banka, il picchiaduro a scorrimento su Super Famicom preferito da chi scrive queste righe.
E contemporaneamente fu anche il primo titolo adattato per i sistemi casalinghi da parte della softco: Kunio Taki aveva insegnato ai propri dipendenti che un buon videogioco da sala doveva spingere il giocatore a inserire cento yen ogni tre minuti; considerato però il prezzo di una cartuccia per Famicom, Yoshihisa si vide costretto a marciare esattamente al contrario, donando alla conversione per la console Nintendo diversi nuovi livelli per giustificare la spesa. Ad esempio dopo l'iniziale rissa nella stazione il combattimento si sposta in un treno in corsa prima dello scontro contro Riki; il secondo livello invece presenta un'inedita sezione in moto con la possibilità di disarcionare gli avversari a calci. Meno inventivo l'ultimo stage, dove i vari boss vengono clonati all'inverosimile per allungare la sfida. Nintendo non si smentì e il terzo livello, ambientato in una via a luci rosse contro una banda di picchiatrici donne, venne epurato da scomodi riferimenti. Il titolo viene pubblicato il 17 Aprile 1987 con una tiratura di quattrocentomila copie.

Dall'altra parte dell'oceano però Taito, che avrebbe dovuto distribuire il gioco in occidente, non aveva buone notizie: dopo un playtest nella loro sede a San José, i responsabili marketing decretarono le risse di Kunio indigeste per i videogiocatori locali. Uniformi scolastiche e kanji vari non avrebbero fatto presa al di là dell'oceano, e Kishimoto dovette quindi trasformare completamente la sua opera, prendendo spunto stavolta dal film The Warriors (I Guerrieri della notte): Kunio diventa il picchiatore Alex, opportunamente abbigliato come Swan, Ajax e soci, mentre tutti i nemici vengono occidentalizzati.

Giustamente ti prendi la briga di occidentalizzare tutto, ma lasci i teppisti sullo sfondo in yanki zuwari...

In quest'ottica non ridisegnare i teppisti armati di bokken come i Baseball Furies è un peccato mortale, sappiatelo.

Meno male che altrove qualcuno ha buon gusto...
Il frutto di questo lavoro è Renegade, che viene prontamente convertito in occidente e presentato a Chicago sempre durante il 1986, quando diventa uno dei coin-op più gettonati d'America. Alex deve salvare la propria donna rapita da un'organizzazione criminale: per questo motivo le scenette prima di ogni stage dove il povero Hiroshi, compagno di scuola di Kunio, viene malmenato dalla banda di turno sono tagliate via.

A parte la versione NES, nuovamente sviluppata da Technōs Japan sotto la direzione di Kishimoto,  tutte le altre vengono realizzate su licenza.

Il risultato è altalenante sugli home computer: la Imagine si accaparra i diritti e su C64 il grafico Stephen Wahid - già responsabile di innumerevoli adattamenti come Ye ar Kung Fu, Mikie e Green Beret - riesce a portare a casa un risultato dignitoso e blocchettoso allo stesso tempo: quello che si perde in definizione viene compensato dalle rapide animazioni, sebbene il problema principale sono i comandi con una scomoda simbiosi tra joystick e tastiera.

Il porto di Legoland brulica di criminalità.
Su Spectrum la monocromia degli sprite è una ragionevole alternativa ad una rappresentazione più nitida degli stessi. Anche stavolta il binomio joystick-tastiera è una barriera da superare prima di cominciare a fare sul serio.

Non male...
Su Amstrad Renegade dà il meglio di sé: colore e definizione vengono a compromessi e anche il sonoro cambia a seconda dei livelli. I comandi sono sempre un problema, ma per lo meno i pulsanti sono abbinati a tre tasti cursore vicini tra di loro, lasciando al joystick solo il movimento di Alex: uno schema molto simile a quello del coin-op originale. L'unico neo è lo scrolling assente, sostituito da schermate fisse.

Un'altra conversione da invidiare, assieme a Gryzor e Operation Wolf...
Sui sedici bit è la stessa Taito a distribuire la conversione, scritta da una Software Creations scazzatissima: l'audio di Tim Follin è completamente inadatto a quello che accade su schermo,  dove la palette cromatica spenta conferisce un aspetto piuttosto opaco al gioco. Questo, da parte sua, offre il peggior scorrimento della storia dei sedici bit dai tempi di Bionic Commando. Si decide di scartare la tastiera e usare solo il joystick, una lodevole iniziativa dal pessimo risultato: per colpire i nemici alle spalle bisogna tenere premuto il pulsante di fuoco, un'operazione lenta e poco reattiva, specie quando ci si trova circondati.
Mi piace ricordare la Software Creations per ben altro, magari sugli otto bit...
Poiché Ocean/Imagine poteva continuare a sfruttare i diritti di Renegade - una prassi dell'epoca, come detto a suo tempo per Strider - il gioco ebbe due seguiti non ufficiali (Target: Renegade e The Final Chapter) sugli home computer di cui però non parleremo, visto che non sono farina del sacco di Kishimoto.

Ironicamente fu Renegade il motivo del look di Double Dragon: Kunio Taki reputò eccessivamente dispendioso il reskin (passatemi la licenza) di Nekketsu Kōha Kunio-kun per il mercato occidentale, tanto da chiedere a Yoshihisa che il suo prossimo gioco potesse risultare appetibile a entrambe le culture senza ulteriori modifiche.

Kunio è diventato una specie di mascotte per Technōs Japan, riapparendo in un'infinità di spin-off di carattere sportivo e non famosi anche in occidente; una tradizione duratura, dato che l'anno scorso è uscito in Giappone Nekketsu Kōha Kunio-kun Special su 3DS, un titolo commemorativo che dovrei ricevere tra una decina di giorni, assieme al nuovo Super Robot Taisen: magari ne riparliamo.



Kishimoto oggi ha due figli, Tatsuhiro e Miku. Gli ideogrammi dei loro nomi formano la parola "Drago", un riferimento sia a Bruce Lee che a Double Dragon. Ma quella di Billy e Jimmy è un'altra storia.

domenica 11 novembre 2012

Double Dragon Neo - Wayforward Technology 2012

È come da bambini, quando guardavi le vignette di Topolino senza capire cosa stessero combinando palmipedi e pantegane antropomorfe: sei attratto da Double Dragon Neon perché "è bello da vedere".

Billy e Jimmy Lee: ora col 100% di mullet in più.
Dopotutto l'uomo della strada cosa dovrebbe trovare di appetibile in un gioco demolito dalla critica? Non so, chiedeteglielo: personalmente l'ho comprato e scaricato per farmi un'idea personale, giacché le argomentazioni sollevate non mi convincevano. 
Troppo difficile? Negli anni '80 con gli amici finivamo picchiaduro a scorrimento con un solo gettone come se niente fosse: Tough Turf, Golden Axe, Ninja Ryukenden per nominarne qualcuno; da come la vedo, gli appassionati del genere meritano una sfida adeguata.
Lontano dall'atmosfera di Double Dragon? Discutiamone: la serie non si è mai presa eccessivamente sul serio; a parte le scaramucce con mostri e Cleopatra, Billy e Jimmy hanno fatto bisboccia con le Battletoads e sono stati protagonisti di due picchiaduro a incontri che ben poco avevano a che fare con l'ambientazione originale. Double Dragon V The Shadow Falls (SNES/Megadrive/Jaguar) è un orrore basato sulla serie animata a stelle e striscie, mentre il discreto episodio per Neo Geo ripercorreva la trama dell'orrendo film per il grande schermo. 
No, Rage of the Dragons per la stessa piattaforma non ha nulla a che vedere con la serie: nella caotica burrasca che seguì la bancarotta di SNK, Evoga, Brezzasoft e compagnia bella non riuscirono a mettere le zampe sul marchio, oramai nelle mani di Million inc, gli artefici dell'eccellente Double Dragon Advance. E sapete cosa hanno in comune l'episodio per GBA e il qui presente Neon, doppi draghi a parte? 

Entrambi citano nei ringraziamenti Yoshihisa Kishimoto.

Il nunchaku non è nella foto per fare scena: da giovane Kishimoto è stato un furyo shonen, un ribelle. Magari ne parliamo in un altro articolo...
Non potrebbe essere altrimenti: Wayforward Technology è stata tanto fortunata da sfruttare la relazione d'affari con Million inc. per entrare in contatto con Mr. Double Dragon in persona. Kishimoto ha quindi elargito consigli su diversi aspetti della produzione e apprezzato il gioco finito, così ricco di ammiccamenti agli anni '80 da giustificare un gigantesco scheletro samurai con la voce di Skeletor come antagonista. Un omaggio e una re-immaginazione, non un remake o una conversione: Neon comincia nella maniera più classica, ovvero con un bel pugno nello stomaco della povera Marian, che viene portata via un attimo prima dell'arrivo dei gemelli, anche stavolta usciti dal garage dove fa bella mostra di sé l'auto di Road Blaster/Road Avenger, il secondo laser game creato da Kishimoto ai tempi della Data East, subito dopo il successo di Cobra Command.

Colori shocking, l'auto di Road Avenger e un clone del Power Glove: credo di intravedere uno schema...
Presto però ambientazione e nemici prendono la propria strada con astronavi-dojo, zombie, gigantesche piante carnivore e altre assurdità. E pensare che una volta il  livello stile Giger in Bare Knuckle 2 mi sembrava una forzatura...


Va bene, quello almeno era ambientato in un luna park...

Anche il monologo di SKULLMAGEDDON (ugh...) prima della rissa finale non fa una piega, lamentando di come abbiamo fatto fuori innumerevoli Williams, distrutto la sua astronave e fatto danni pazzeschi mentre lui, poveraccio, voleva solo un appuntamento con Marian.

Ma seriamente, nonsense a parte (involontario ossimoro), come se la cava il gioco alla prova dei fatti? Discretamente direi.

Il fulcro del sistema di combattimento gioca tutto attorno allo stun: i fratelli hanno a disposizione pugni e calci da concatenare per stordire l'avversario; a quel punto è possibile spedirlo in aria con un uppercut per continuare la combo inanellando juggle o, in alternativa, sfruttare una proiezione per spedire il malcapitato addosso ai compagni o in una trappola. Sembra semplice ma il massiccio esercito di antagonisti lascia pochi momenti per riprendere fiato: nell'incessante assedio torna utile il Gleam, ovvero la possibilità di schivare un colpo nemico abbassandosi, ricevendo come bonus un breve aumento del danno inflitto. Un'abilità da padroneggiare in fretta, utilissima al livello di difficoltà base e assolutamente vitale per tutti coloro che mirano alla conquista di quelli successivi. Perché sì, Neon è un osso duro per il giocatore medio, principalmente poiché la difficoltà è ottimizzata per due picchiatori contemporaneamente. I Draghi solitari avranno vita dura, specie per l'ingiustificabile assenza del co-op (oops, bro-op) online, una mancanza che lascia in bocca il triste sapore dell'occasione mancata da correggere assolutamente con una prossima patch.

"Darsi il cinque" tra fratelli offre potenziamenti temporanei: niente amore per i giocatori solitari.

Sì, tocca essere bravi per finire il gioco da soli, non c'è la gomitata risolutrice a salvare le chiappe stavolta, sarà per questo che la gente lo reputa indegno dell'eredità di Double Dragon?

Per ovviare a questa mancanza c'è un sistema di potenziamento che convince, ma non del tutto. Questo facendo un discorso molto alla buona eh, sappiamo tutti che nell'universo di Double Dragon la gomitata è l'equivalente di un minigun con munizioni infinite.

Forti dell'ambientazione anni 80 che pervade il gioco, i due fratelli collezionano audiocassette con cui personalizzare il proprio "mix": sul lato A trovano spazio gli stili, ovvero bonus sempre attivi, mentre sul B è possibile scegliere una tecnica speciale. Solo uno stile e una tecnica possono essere attivi contemporaneamente, e collezionare più cassette di un determinato tipo permette di rendere la relativa abilità più efficace.

Neon aggiunge e toglie profondità all'area di gioco come vuole, ricalcando le orme degli episodi per NES.
All'inizio è possibile raccogliere fino a dieci cassette per tipo, ma queste possono essere portate a cinquanta in un particolare negozio, dove un nerboruto figuro potrà aumentare il limite inizialmente imposto tramite esborso di Mithril: la fregatura è che il prezioso minerale viene ceduto esclusivamente dai boss, tre misere pepite alla volta, per giunta. Per concedere ai fratelli la possibilità di sopravvivere ai livelli più alti sarà quindi necessario "grindare" all'inverosimile i non brevissimi stage, facendo incetta di pietre in modo da poter contrastare i vecchi nemici che, con un grado di sfida maggiore, picchiano molto più duro della prima volta. Per il resto questo sistema offre un gran numero di tecniche, dall'evocazione di draghi sputafuoco tanto cari a Tyris Flare al classico calcio uragano, a conti fatti la mossa migliore poichè permette di stordire rapidamente più nemici in una vasta area: effettuare una proiezione contro due avversari permette di rompere la testa dell'uno contro quella dell'altro, una mossa che da sola decretò il successo di Batman Returns su Super Famicom 'anta anni or sono.

Dopo aver preso a calci gli odiosi gnomi, ho abbastanza ampolle per...oops, gioco sbagliato.

 Alla fine però il sistema risulta piuttosto legnoso: per cambiare stili e tecniche è necessario interrompere l'azione per navigare l'apposito menù e, assieme a scelte infelici come la corsa abbinata alla pressione di un dorsale,  il gioco non riesce a trasmettere il dinamismo di episodi più riusciti come il già citato DD Advance o DD Returns per Super Famicom.

A conti fatti comunque Neon piace: per il prezzo che chiede offre un picchiaduro discreto dove luci e ombre si alternano con un risultato finale soddisfacente: il suo problema principale è che si permette di essere diverso, offrendo un approccio al pestaggio da strada forse agli antipodi dell'immediata accessibilità che ha fatto la fortuna di Final Fight e relativa schiera di cloni da parte di Capcom.
Di certo si tratta di un gioco ben superiore all'atroce, mai rilasciato Double Dragon 2: Wanders of the Dragon per Xbox Live Arcade. Un remake tanto brutto che non si prendeva nemmeno la briga di presentare l'elicottero di Cobra Command all'inizio del primo livello come avveniva invece nella controparte arcade: ebbi il dubbio privilegio di provare una beta e sono grato che non abbia visto la luce del giorno.
Gli amanti del genere, possibilmente quelli con amici a portata di mano, non avranno problemi ad abituarsi alle regole imposte da Wayforward: come incentivo c'è la possibilità di godersi una colonna sonora STREPITOSA ad opera di Jake Kaufman che miscela tracce classiche e nuove in un inno al chiptune di gran qualità, disponibile qui e di cui vi lascio un assaggio dopo la lettura, in amicizia.

Sperando vivamente che il bro-op online venga reso disponibile in seguito ad una patch, come promesso.


giovedì 18 ottobre 2012

Mike Singleton. 1951 - 2012

Il Signore della Mezzanotte, l'eroe dell'isola di Midwinter ci ha lasciato il dieci Ottobre, poco più di una settimana fa. Gli dedicai due speciali sulle pagine di The Games Machine tempo fa, per un totale di circa diciottomila caratteri: la Time Machine va avanti,  ma quantomeno vorrei spendere qualche parola qui, per ricordare l'uomo e le sue opere.


Ciao Mike.

Il mio primo, "vero" contatto con l'arte di Singleton avvenne in verità piuttosto tardi.

Certo, apprezzai Midwinter tantissimo, un gioco immenso che, assieme a Dungeon Master e Chaos Strikes Back, formava la Sacra Trinità dei titoli da invidiare con tutte le forze ai possessori di ST.
Ma il colpo di fulmine arrivò con l'acquisto del numero 77 di Zzap!64, risalente al settembre del 1991: il glorioso C64 si stava avviando con irrimediabile certezza sulla strada della pensione, ma non era un motivo sufficiente per trascurarlo.
Comprai quel numero per la demo di Rubicon, ché io alla Thalamus stile re Mida continuavo a crederci, anche nell'era dei sedici bit. Sul numero c'era un'intervista a Mike, e rimasi affascinato dalla  sua produzione e dalle sue idee, tanto rivolte al futuro quanto alle piattaforme sul viale del tramonto.

Una versione di Midwinter in bitmap per il C64, così come avvenne (oddio, magari anche meglio) con Carrier Command? Semplicemente geniale, l'avrei sicuramente comprata.

Lords of Midnight però, all'epoca non l'avevo mai giocato. Mea culpa, ma non mi capitò mai sotto le mani; tuttavia il destino volle che tale gioco condividesse il Megatape in omaggio alla rivista, sul lato B.

WORD!

Consumai letteralmente quella cassetta, fissa nel mio Datasette per mesi, ma la demo di Rubicon la provai solo una volta.

Prima di dedicarsi alla programmazione, Mike era insegnante di inglese nel Merseyside, dalle parti di Liverpool. Abbandonata la vita dietro le cattedre trovò nel codice un nuovo modo per far quadrare i conti: appresi i rudimenti del basic sull’arcaico Commodore PET, cominciò a produrre alcuni semplici videogiochi prima del successo di Space Ace (no, Don Bluth e i lasergame stavolta non c'entrano), un titolo arcade interamente scritto in codice macchina pubblicato dalla Petsoft in oltre 300 copie, un record di vendite considerevole per il 1980.

All'epoca Petsoft era in trattative con Sinclair per fornire software per la loro nuova macchina, lo Zx80. L'appalto, però, finì nelle mani della Psion, lasciando a bocca asciutta Petsoft e Mike: quest’ultimo però riuscì a contattare telefonicamente Clive Sinclair e inviargli alcuni giochi. A quanto pare l’impressione fu più che buona dato che venne invitato a Cambridge assieme ad altri promettenti programmatori per mettere in anteprima le mani sul supersegreto, nuovissimo Zx81. La macchina era ancora un rozzo prototipo, niente più che una eprom infilata nel’involucro di uno Zx80, ma un fiducioso Clive ne consegnò copie ai suoi visitatori affinché provassero a stupirlo. Mike riuscì a comprimere sei giochi in basic in quello stretto limite di memoria realizzando Game Pack One, uno dei primi best seller per la neonata macchina, portando a casa un record di quasi centomila pezzi venduti.
Seguirono diversi giochi pubblicati per varie softco, tra i quali spicca un certo Shadowfax.  Uscito per l’etichetta Postern nel 1982, il gioco ci vedeva nei panni di Gandalf a cavallo del suo destriero, Shadowfax appunto, intento a spazzare i cavalieri oscuri a colpi di fulmini magici, il tutto ovviamente senza sborsare una sterlina per i diritti. Il gioco meriterebbe di essere riscoperto anche solo per le fenomenali routine di animazione dei destrieri, che utilizzavano le sequenze fotografiche di Eadweard Muybridge.



La passione per l’universo di Tolkien però continuò ad essere musa ispiratrice anche per il suo gioco più celebre, Lords of Midnight, che uscì per Beyond nel 1984, riscuotendo un massiccio 10/10 sullepagine di Crash!

Parte avventura testuale, parte strategico e parte gioco di ruolo, il titolo è ambientato nelle terre di Midnight, attanagliate nella gelida – è il caso di dirlo – stretta del despotico stregone Doomdark. A lui si oppongono quattro personaggi giocabili, ovvero Luxor the Moonprince, suo figlio Morkin, Rorthron the Wise e Corleth the Fey. Questi posso essere individualmente mossi nella gigantesca area di gioco reclutando alleati e armate per combattere le truppe dello stregone, che possono però contare sulla Ice Fear, un potere in grado di instigare la disperazione anche nei cuori dei più valorosi rendendoli incapaci di continuare a lottare. Dalla loro, gli eroi hanno un paio di vantaggi: Morkin è immune alla Ice Fear e il suo compito è quello di distruggere la fonte del potere di Doomdark, la corona di ghiaccio, sulla Tower of Doom nel cuore della cittadella nemica, mentre il padre Luxor è in grado di comandare a distanza truppe e alleati per coordinare le unità belliche. La vittoria quindi può essere raggiunta sia distruggendo l’artefatto, sia conquistando la capitale nemica prima che le truppe avversarie schiaccino le armate della resistenza: suona familiare?
 Gioco “epico” (aggettivo prontamente utilizzato tra le prime righe del manuale) scritto da un solo uomo in sei intensissimi mesi di programmazione, con contorno di hype creato ad hoc con interviste e estenuanti pubblicità sulle riviste di videogiochi d’oltremanica del tempo, LoM fagocitò avidamente tutta la memoria disponibile nello Speccy, tanto che Mike dovette riformulare il codice quattro volte prima di avere pronta una versione definitiva, ricordando come all’epoca aveva in casa una scatola colma di cassette che venivano costantemente riscritte nel tentativo di ottimizzare il programma, poco alla volta.

Una bella gatta da pelare...

Proprio a causa di questa lotta all’ultimo byte contro le limitazioni della macchina è possibile trovare incongruenze con il progetto originale: nel manuale, per esempio, si parlava degli Utarg, reclutabili dal giocatore ma facilmente vulnerabili alla Ice Fear, ma nel gioco, di questa caratteristica, non vi era traccia. Nonostante le limitazioni, la resa grafica era mozzafiato: sfruttando una tecnica successivamente conosciuta come Landscape, il gioco disegnava dinamicamente i fondali a seconda della distanza dal giocatore, ingrandendo quindi progressivamente elementi del paesaggio in lontananza mano a mano che venivano avvicinati nelle 4000 locazioni che caratterizzavano le terre di Midnight. La grafica era quindi parte integrante dell’esperienza di gioco, al contrario di titoli come The Hobbit, preso in esame da Mike in virtù delle schermate, belle ma semplicemente accessorie al testo e troppo lente nel processo di generazione su schermo. Ironicamente, la ristretta palette dello Spectrum fu involontariamente ispiratrice per l’ambientazione: poiché il contrasto bianco/blu nella monocromia dei fondali funzionava così bene venne adottato un mondo ghiacciato.

Recensioni a parte, il successo del gioco fu immediato e subito fiorì una solida schiera di appassionati dedita a scoprire le strategie più efficaci per aver la meglio su Doomdark con una dedizione tale da lasciare a bocca aperta lo stesso autore che, codice e soluzione alla mano, si trovò davanti a tattiche ben più elaborate di quelle da lui inizialmente concepite. A onor del vero, tale passione fu dovuta, oltre all’indiscussa qualità del titolo, anche a un concorso orchestrato dalla Beyond: la prima persona a finire il gioco stampando il testo della sua avventura schermata per schermata avrebbe avuto l’onore di veder narrate le proprie gesta sotto forma di una novella. In realtà, Beyond non riuscì a trovare un editore interessato e anzi venne considerata la possibilità di creare una graphic novel disegnata da Roger Kean e Oliver Frey ma alla fine non se ne fece nulla.
Con un simile successo, pensare a un seguito fu semplicemente naturale. L’anno successivo, come era logico attendersi, uscì Doomdark’s Revenge. Stavolta l’equilibrio del gioco è incentrato maggiormente sul fattore bellico, con la figlia di Doomdark, Shareth, che dà la caccia a Luxor e soci dopo aver rapito Morkin. I buoni si muovono di giorno e Shareth di notte, entrambi cercando di reclutare signori e armate da opporre al nemico; recuperare alleati stavolta è un compito più complesso perché essi si muovono con i loro eserciti nell’area di gioco autonomamente, interagendo addirittura con le altre fazioni (ce ne sono 6 in tutto e comprendono stereotipi fantasy quali giganti e barbari), e spesso le alleanze vengono forgiate solo in seguito a particolari condizioni. Un gioco più grande e dinamico insomma, sebbene l’imprevedibilità di molti fattori togliesse qualcosa alla trama magistralmente scritta del primo LoM, da Crash definita “meravigliosamente coerente”.

One more time!
Anche stavolta ci fu un concorso, che metteva in palio un set di miniature raffigurante gli eroi del gioco in un apposito diorama. Sarebbe andato in palio a chi avrebbe fatto apparire l’iscrizione “Watchwords of Midnight” nell’anello di Luxor, traguardo raggiungibile solo completando il gioco senza far morire nessun protagonista e sconfiggendo Shareth.
Sarebbe dovuto uscire anche un terzo capitolo, Eye of the North, ma non vide mai la luce. In un’intervista a Crash, Mike dichiarò che lo stava continuando nei ritagli di tempo ma evidentemente gli impegnativi progetti per le nuove piattaforme a 16 bit troncarono definitivamente il progetto. Molto ambiziosamente il titolo avrebbe vantato un’area di gioco ancora maggiore, con diversi regni da esplorare, un nuovo motore grafico in grado di donare grande varietà a personaggi e fondali e il multiplayer, con due giocatori impegnati alla ricerca del gioiello del titolo, un artefatto in grado di vedere nel futuro che avrebbe permesso all’ormai anziano Luxor di scrutare il radioso avvenire della sua amata Midnight dopo la morte, riposando così in pace.

Dopo Doomdark's Revenge Mike realizzò altri giochi per Spectrum, indubbiamente di buona fattura ma incapaci di replicare il monumentale successo delle gesta di Luxor. Esempio è Dark Sceptre, un gioco di strategia caratterizzato da sprite di grandi dimensioni ed una generale lentezza di fondo, a partire dalle animazioni fino alle stesse meccaniche di gioco che gli impedirono di diventare un classico nonostante la buona accoglienza della stampa. Shadowfax e la serie di Lords of Midnight sussurravano tuttavia un chiaro messaggio: Mike Singleton voleva assolutamente lavorare su materiale "Tolkeniano". Un obiettivo che però riuscì a coronare ufficialmente nel 1988 con l'uscita di The War in Middle Earth per la Melbourne House in seguito all'acquisizione da parte della Virgin. Dopotutto fu proprio la Melbourne House a sviluppare anni prima l'avventura testuale The Hobbit e con Mike a bordo le credenziali per un prodotto vincente c'erano tutte.



E così fu: il gioco prende il meglio di Lords of Midnight scartando il Landscape a favore di una visione globale del conflitto su mappa strategica. Inizialmente i personaggi si muovono autonomamente con lo scopo di gettare l'anello nel monte Doom ma sono destinati alla cocente sconfitta senza l'aiuto del giocatore: è quindi d'uopo muoversi in maniera scaltra usando Frodo e compagni per raccogliere oggetti utili per mobilitare alla causa armate o per aumentare le possibilità di vittoria senza caricare le armate di Mordor a testa bassa. In seguito, una volta riuniti eserciti e personaggi chiave si passa al gioco vero e proprio, comandando enormi truppe guidate da Aragorn e soci per guadagnare il tempo necessario affinché Frodo compia la sua missione, da una parte usando la forza bruta per scontrarsi con le forze di Sauron, dall'altra ricorrendo all'astuzia per spostarsi con cautela.
Il gioco fu uno dei primi assieme a 688 Attack Sub della EA e Silent Service 2 di Microprose a sfruttare in maniera esemplare la VGA a 256 colori.
Quando personaggi ed eserciti si scontravano infatti la mappa strategica lasciava il posto a schermate mozzafiato che rendevano davvero giustizia al mondo immaginato da Tolkien con numerosi e massicci sprite che se la davano di santa ragione. Tali schermate erano visionabili anche al di la della battaglia: in qualunque momento era possibile ingrandire porzioni di mappa per valutare la forza delle armate o anche solo per ammirare il paesaggio attraversato dalla Compagnia dell'Anello, magari scovando nel fondale utili oggetti da raccogliere. Un grande successo quindi: ACE promosse il gioco con un punteggio di 914, salutandolo con uno storico, spiritoso editoriale firmato da un frustrato Sauron, prontamente tradotto dallo Studio VIT sul numero 3 dell'italiana K. E' proprio la versione PC quella da recuperare: su Amiga i numerosi bug rendono l'esperienza incostante mentre le versioni ad 8 bit perdono gran parte del fascino evocato dalla stupenda grafica.

L'anno successivo Singleton abbandona finalmente le ambientazioni fantasy per creare un nuovo capolavoro. Uscito inizialmente su Atari ST, Midwinter vede il mondo soggiogato da una nuova era glaciale in seguito al cataclismatico impatto con un meteorite. Il teatro della vicenda è l'isola di Midwinter, bersaglio delle mire espansionistiche del dispotico generale Masters. Il giocatore veste i panni di John Stark, comandante della Free Village Police Force. Inizialmente vittima di un'imboscata da parte delle pattuglie di Masters, Stark dovrà successivamente riunire sotto di se una task force di agenti e civili con cui contrastare il generale fino all'obiettivo finale, ovvero la distruzione della sua base operativa. Le missioni possono essere incentrate sull'eliminazione del nemico o avere obiettivi più subdoli come il sabotaggio di importanti strutture logistiche ma Stark non può fare tutto da solo. Reclutare gli agenti è un'operazione di per se piuttosto complessa dato che ognuno dei 32 personaggi ha una storia a se e i vari background convergono in una fitta rete di relazioni interpersonali. Di conseguenza alcuni personaggi si uniranno alla causa solo se avremo in squadra i loro compagni e un attento studio dei rapporti farà la differenza per la creazione del team ideale, tenuto insieme da una sinergia vincente.

Un solo nemico su schermo, ma potevamo lamentarci?
Questo poiché tutti gli agenti sono contraddistinti dal una serie di attributi che governano fattori quali precisione, rigenerazione delle ferite e capacità di guida oltre ad abilità uniche come ad esempio la possibilità di trattare le ferite altrui dell'infermiera Maddock, la compagna di Stark, quindi è indispensabile fare di tutto per scovare e arruolare i personaggi migliori. Con un deciso cambio di rotta rispetto al passato, stavolta i conflitti vengono risolti in tempo reale grazie a sequenze arcade. L'azione prende vita grazie ad un motore in grado di creare un convincente e veloce mondo composto da poligoni solidi decisamente fluido, nonostante - ad onor del vero - l'area di gioco occupa una porzione ridotta dello schermo, mentre il resto è adibito a vari indicatori come bussole e mappe. L'isola di Midwinter occupa un'area di circa 400.000 chilometri quadri e per spostarsi è possibile utilizzare gli sci, il gatto delle nevi, librarsi in deltaplano o più semplicemente accomodarsi in funivia; ogni sistema di trasporto ha i suoi punti di forza come ad esempio l'uso di un fucile di precisione nel caso degli sci o un lanciamissili in grado di abbattere i nemici più coriacei per il gatto delle nevi. Nonostante le limitazioni tecniche dell'epoca avessero costretto il team di Singleton a mostrare solo un nemico alla volta durante le sezioni arcade, il gioco divenne presto oggetto di culto mischiando alla perfezioni gioco di ruolo, strategia e azione arcade.

Un seguito non tardò ad arrivare, modificando sostanzialmente l'ambientazione. Flames of Freedom è ambientato anni dopo gli eventi del primo gioco, con l'isola di Midwinter sprofondata in seguito al disgelo e la Federazione Atlantica (i buoni) ai ferri corti con l'impero Saharan, una crudele congrega di schiavisti. Stavolta è possibile creare un alter ego personalizzato da zero con un robusto editor che permette di scegliere aspetto ed impostare attributi e abilità personali a seconda dello stile di gioco. Nei panni di un agente segreto della Federazione ogni mezzo sarà lecito per riscattare le Slave Islands, un arcipelago nelle mani dei Saharan.

"Inconcepibbile", da pronunciarsi con la voce di Vizzini ne La storia Fantastica.
I numerosi approcci forniti dal completo set di abilità garantiscono soluzioni sempre diverse, oltre ovviamente ad un rigiocabilità fuori parametro. Se i veicoli del primo Midwinter erano solo una manciata adesso la loro varietà è quasi imbarazzante: aerei, elicotteri, sottomarini, camion, carri armati e addirittura palloni aereostatici solo per elencarne alcuni: quello che proponeva Flames of Freedom nel 1991 non era solo un capolavoro, ai nostri occhi di videogiocatori era qualcosa di assolutamente inconcepibile.
Nessuno era pronto al maestoso mondo che Mike Singleton aveva creato e il successo fu unanime.

Tralasciando la parentesi di Starlord sotto etichetta Microprose, un mix tra strategia e combattimenti stellari virtualmente devastato dalla critica, nel 1993 esce Ashes of Empire, il suo ultimo gioco nonché il più ambizioso. Prendendo in prestito le meccaniche dei due Midwinter e raffinandole ulteriormente, AOE è ispirato alla tesa situazione nell'Europa dell'est di quegli anni, scartando quindi le ambientazioni fantastiche della sua precedente produzione a favore di tematiche reali. Nell'introduzione del manuale Mike scrive che “nel gioco troverete riferimenti al mondo reale e, mi auguro, riferimenti a quanto possa essere difficile portare la pace in paesi dove finora regnano solo miseria e spargimenti di sangue”. L'obiettivo del giocatore è portare pace nel CSR, una superpotenza multietnica dotata di testate nucleari in cui l'autorità centrale ha perso il suo significato a favore della guerra civile. Con oltre 6000 personaggi unici ed una gigantesca area di gioco con 9000 locazioni differenti, AOE è un gioco eccezionale che unisce il meglio di Midwinter ad una complessa gestione della delicata situazione politica tra amministrazione dei beni, armonia tra le etnie e urbanistica al fine di evitare un conflitto nucleare.

Solo due cose, per finire. Dopo il primo articolo che scrissi su TGM dedicato a Mike, venni contattato via mail da un padre di famiglia, oramai alle prese con marmocchi e problemi "da adulto" vari, tuttavia felice come un bimbo di ricordare le ore investite in Lords of Midnight nella giovinezza.

Fu un bel momento, uno di quelli che ti rendono fiero del lavoro  svolto.

Poi, pensando a quello che Mike riuscì a compiere con risorse tanto limitate, ti viene da pensare che, se egli fosse stato assunto da Bethesda, un eventuale Elder Scrolls con la sua firma sarebbe ambientato in un intero sistema solare, dettagliatissimo: Phantasy Star e Skyrim non siete nessuno, davvero.
In poco più di un paio di mesi Mike e la Psygnosis ci hanno lasciati, sottraendo degli importanti tasselli alla tradizione videoludica Britannica, importantissima custode di ricordi specialmente per noi, figli del vecchio continente.

Il modo peggiore per sentire il passare del tempo.