mercoledì 16 aprile 2014

Soldier on: una rassegna sugli sparatutto ad ambientazione militare. Capitolo 2: NES parte 2, Master System.

Nella nostra lista avevamo iniziato a elencare gli sparatutto a tema militare per NES, ma la lista è davvero lunga e piena di incognite.
Per dire, ce lo mettiamo P.O.W. (Prisoners of War, 1989) della SNK?
Considerando anche che i momenti in cui si spara sono limitati a quei preziosi, intensi attimi in cui si sgraffigna l'M-16 dalle mani dei soldati nemici? Direi di non trattarlo, dai. Nel remoto caso in cui decidessimo di includerlo, bisognerebbe dire che si tratta di un picchiaduro a scorrimento orizzontale, adattamento di un coin-op che in Italia non ricorderebbe nessuno, se non fosse per la recensione apparsa sul primissimo numero di K, nel Dicembre del 1988.
Era davvero duro e spietato in sala giochi, specie in un'era dove finire Double Dragon a furia di gomitate era la prassi e l'abilità del picchiadurista arcade sonnacchiava.

L'Hind, il nemico numero uno del guerrigliero videoludico anni Ottanta.

Su NES è purtroppo assente la modalità per due giocatori, così come la cattivissima testata, tutta colpa dei comandi ridotti, dai tre pulsanti originali a due.
In cambio il gioco è però molto più abbordabile. Merito anche dei potenziamenti come un tirapugni con cui aumentare il potere di attacco del nostro ex prigioniero, reperibili andando a ficcanasare in giro per i livelli, magari sul retro dei soliti camion.
Sono anche presenti nuove tipologie di nemici e le granate possono finalmente essere raccolte e usate, sebbene il loro reperimento sia spesso legato a particolari momenti. Per esempio l'elicottero alla fine del primo livello è scortato da un plotone di granatieri che, molto convenientemente, elargiranno gli ordigni una volta stesi, giusto in tempo per lanciarli contro l'altrimenti irraggiungibile velivolo. È importante sottolineare che quella su NES è l'unica conversione del gioco.

Ma, come dicevo, lasciamo perdere e non trattiamolo, P.O.W.

...

Dicevo, parliamo piuttosto di Jackal (1988), ennesimo giro, ennesima conversione, stavolta di un affascinante arcade Konami. Ha tutto quello che i film d'azione anni Ottanta ci hanno insegnato a pretendere: quattro militari sgommano a bordo di una jeep per salvare prigionieri di guerra da campi di prigionia sparsi in un'area di gioco a scorrimento verticale, roba che se il veicolo era invece un van nero con strisce rosse avevi già il tie-in di A-Team definitivo. Su NES nasce su Disk System con il nome di Final Command: Akai Yosai, solo per venire traghettato su cartuccia per il mercato americano, così come era successo per Akumajo Dracula. I commilitoni caricati in auto (una piuttosto capiente a dire il vero, dato che oltre ai quattro della Squadra Jackal trovano posto altri dieci prigionieri) vanno traghettati attraverso sei pericolosissime zone di guerra prima del rendez-vous con un elicottero al termine di ognuna di esse, giusto in tempo per affrontare il boss di turno.

Anche le statue sono pericolose, come insegna Ikari Warriors. E In the Hunt...

Un gruppo di carri armati e un grosso elicottero con paracadutisti al seguito sono i più "normali", dato che presto avremo da rimpinzare a suon di granate enormi statue femminili sputa missili o un carro armato GIGANTESCO, da affrontare subito dopo aver abbattuto la fortezza rossa (Akai Yosai) del titolo. Questo colosso - serio, è più grande della base nemica - è assente nel coin-op.

Heavy Barrel (1990) non mi piaceva neppure in sala giochi. Lui, la sua grafica priva di ispirazione, la sua palette smorta e generica nonché gli ignobili nemici acrobati, quelli che si tingevano di giallo e si abbandonavano a un doppio salto mortale una volta che venivano uccisi.
Figurati su NES, con quello sprite principale orrendo nella sua camminata ridicola, pucciato adorabilmente in quella pigrizia che contraddistingueva la produzione di Data East sulla macchina Nintendo, vedi Robocop. Per dire, i soldati dotati di jepack scompaiono tristemente nel nulla una volta colpiti.

Momenti che ti fanno rimpiangere gli acrobati di cui sopra; per lo meno è possibile giocare in due, come in sala giochi.

Però l'Heavy Barrel del titolo, ovvero l'arma componibile finedimondo (un po' come la Golden Gun di Sly Spy Secret Agent, guarda caso anche qui Data East) trasforma la monotona sparatoria di base in un inferno di fuoco, almeno per una manciata di secondi.

Un'avvincente schermata di Heavy Barrel. No, scherzavo.

Poi, un po' come il rientro al lavoro dopo un paio di settimane di ferie, si torna nella triste routine, con i nemici demotivati che si allineano bellamente, giusto in tempo per essere obliterati dal fuoco del nostro soldato. Sono pacifici, spesso addirittura ci superano tirando avanti per la loro strada, uscendo dallo schermo senza opporre resistenza; altre volte prima di sparire si fermano sul posto per sparare pigramente un paio di proiettili. Niente assalto frontale cattivissimo, ché magari non li pagano abbastanza e il sindacato gli ha detto di fare così, che ne sai.
Scherzi a parte, Heavy Barrel per NES è piuttosto facile, bruttino da vedere e tristemente generico: l'unica cosa che gli dona quel minimo di personalità, super arma a parte, sono i forzieri contenenti le armi extra, da aprire con chiavi assolutamente identiche a quelle di Midnight Resistance. Insomma, abbiamo per lo meno capito che alla Data East piaceva riciclare le idee, ma il gioco andrebbe giocato almeno una volta per sentire l'atroce digitalizzazione ("HEVY BARAH!") gracchiata dal NES  quando si assembla l'omonima arma.

Passiamo a Senjou no Okami (1986), il mitico Commando. Che poi un redattore di TGM, all'epoca, credeva fosse lo spin-off del film di Schwarzenegger, pensa te la stampa specializzata in mano a chi stava; poi ho cominciato a scriverci io, e la situazione è peggiorata.

Commando è stato praticamente convertito ovunque, e quella su NES è una versione realizzata da un team interno di Capcom, nientemeno. I livelli sono lievemente estesi, presentando alcuni passaggi segreti rilevabili solo lanciando una granata in punti precisi. Questi nascondono nel sottosuolo prigionieri extra da salvare e alcuni potenziamenti mai visti in sala giochi, come un visore che rivela immediatamente tutte le aree nascoste. Ci sono anche un paio di nemici nuovi, nella fattispecie soldati armati di scudo antisommossa e bonzi lanciamissili.

No, questi non ci sono per davvero, è che i soldati armati di bazooka sono disegnati così male che li ho sempre visti in quel modo.

oh, a me continuano a sembrare bonzi con bastone lanciamissili, ma non è che gli altri nemici siano disegnati tanto meglio.
Graficamente è piuttosto spartano, con una presenza massiccia di sfarfallamenti vari, accentuata specialmente nel secondo livello, con il suo dispiegamento di mezzi militari, e i nemici sono disegnati con un numero di colori sensibilmente inferiore rispetto all'originale.

Tralasciando gli spargimenti di sangue visti su schermo, la guida giapponese la butta sul comico, insegnandoci che il mitra nulla può contro i ripari rocciosi, ma una granata al punto giusto può svelare un passaggio nascosto.
Ci sono anche dei momenti da facepalm carpiato, tipo quando Super Joe, in seguito alla perdita di una vita, ricomincia quella successiva dentro una letale trincea morendo di nuovo sul colpo, senza potere fare nulla!

Però lo spirito del gioco originale è lì intatto, e si tratta comunque di un titolo uscito nel lontano 1986.
Occhio che il gioco va finito quattro volte di fila per completare la missione e gustare la splendida frase:

"Thank you for playing
Your great player
This game was ended".


Sono cose che vale la pena vivere.

E restando in casa Capcom, menzione d'onore va a 1943, uscito nel 1988. Va bene, anche lui è un attimo borderline, così come P.O.W., ma facciamo un'eccezione. Questo perché la conversione vanta caratteristiche uniche: prima di decollare, si può scegliere dove distribuire tre punti con cui potenziare il nostro P-38.

Sono pochi e sono preziosi: occhio.
Possiamo quindi prediligere l'attacco e la difesa, ma anche i punti ferita totali, il tempo in cui le armi speciali rimangono attive nonché la gamma del nostro arsenale.
Inizialmente, infatti, i classici simboli "POW" ottenuti in seguito all'abbattimento di squadroni rossi metteranno a disposizione il solo shotgun (l'attacco a corto raggio in grado di eliminare i proiettili nemici), ma, investendo punti nella relativa specializzazione, potremo raccattare tutte le armi viste nel coin-op.

È un'idea originale che dona al gioco un inedito livello di strategia, mentre un sistema di password permette di continuare la partita, conservando i potenziamenti faticosamente accumulati.

Non si comporta male, e bravo il NES.
E il gioco si comporta benone, con un framerate piuttosto stabile, un sacco di sprite su schermo e tanti segreti da rivelare sparando in determinate zone, spesso indispensabili per guadagnare un punticino extra con cui potenziare l'aereo.
Per garantire una fluidità decente contro i giganteschi boss, il NES elimina il fondale durante gli scontri, trasformando l'area di gioco in uno sfondo monocromatico, un'espediente parecchio usato all'epoca.

E il resto, brevemente? Beh, ci sarebbe la conversione di Operation Wolf (1989), un tentativo meno che decente di riversare il gigantesco coin-op Taito su NES. Un gioco che metteva sotto stress il buon vecchio Zapper, considerando che non è contemplato il fuoco automatico e il rilevamento di collisione è quantomeno opinabile; è tuttavia possibile giocare anche usando un mirino, comune denominatore di tutte le conversioni del gioco, del resto.

Poi un genio decise di scartare l'emulazione dello Zapper tramite Wiimote per l'uscita sulla Virtua Console...
I nemici severamente ridimensionati e rozzi, assieme alla palette smorta, non riescono di certo a impensierire la GIGANTESCA conversione per PC Engine su Hu-Card da 4 Mbits; l'unica, tra l'altro, che premetteva di giocare in due contemporaneamente.

NEC Avenue - Taito: 1 - 0 palla al centro.

O ancora l'ottima conversione di Cabal (1990) a opera dei ragazzi di Rare, ché agli inizi della carriera su NES i fratelli Stamper sfornavano giochi a raffica, da Slalom alla Ruota della Fortuna, con ben 17 titoli alla corte di Nintendo nel solo 1989!

Un sottomarino in un lago. Un po' come un carro armato in un garage condominiale.
Un po' scattosi alcuni boss di fine livello come il sottomarino o la ridicola cabina del camion che porta i cannoni sul molo, su un solo asse stile segway, ma per il resto c'è tutto, compresa la capriola per schivare i proiettili, assente nelle - comunque molto buone - conversioni su home computer della Ocean.

Master System

Cosa vogliamo ricordare sull'amatissimo otto bit SEGA? Alti e bassi.

Rambo (1986) rientra alla grande nei canoni della nostra rassegna, altro che il platform bruttissimo e senza senso per NES. In puro stile Ikari Warriors, l'alter ego di Stallone e il suo compare Zane (un personaggio creato per il gioco, uguale allo sprite principale, ma di colore e con una bandana gialla) si aprono la strada attraverso sei livelli a scorrimento verticale, sparando con mitragliatrice e frecce esplosive, che per una volta sostituiscono le abusatissime granate. La cosa curiosa è che i due non possono sparare all'indietro, ma solo in un ventaglio a 180° frontale, rendendo necessaria quindi l'eliminazione sistematica dei nemici che, mica scemi, non si fanno scrupoli nello sparare alle spalle dei due protagonisti, qualora riuscissero a sfuggire al loro fuoco.

Dai Rambo, forza Zane! Come "chi è Zane"?
Una scelta particolare che rischia di rendere l'esperienza meno fluida del dovuto, ma, per lo meno, la ricerca degli adorabili prigionieri da salvare (adorabili perché sganciano potenziamenti per mitra e frecce, mica per altro) motiva l'approccio più metodico.
E hai bisogno di tutta la calma del mondo, considerando che ci sono solo tre vite a disposizione e non si continua, se non attraverso un benvenutissimo cheat mode.
Come molti sanno, il gioco non nasce nemmeno come tie-in di Rambo, bensì come adattamento americano di Ashura. In questa versione originale, Rambo e Zane sono Bishamon e Ashura, due monaci buddisti con licenza di scalciare deretani e annotare nomi, ma SEGA aveva messo le mani sui diritti del blockbuster Hollywoodiano e si pensò di far passare il gioco al reparto trucco, prima di pubblicarlo in America.


Il make up è rintracciabile quindi non solo negli sprite dei protagonisti, ma anche nelle immagini tra un livello e l'altro, inizialmente delle "cartoline" di paesaggi asiatici, ora sostituite da immagini di Rambo in pose da macho. Anche la colonna sonora dello schermo dei titoli è cambiata, con una riedizione (brutta) del tema originale scritto da Jerry Goldsmith, quello a cui Martin Galway fece onore in Rambo First Blood Part II su C64. Quando arrivò il momento di vendere il gioco in Europa la licenza di Rambo  era purtroppo scaduta, quindi SEGA optò per un bel minestrone: la schermata iniziale e le immagini di fine livello di Ashura con gli sprite di Rambo, incorniciando il tutto con il nome Secret Command e ciao, tanti saluti.
L'adattamento genera alcuni momenti involontariamente ispirati, come lo scontro metropolitano con sceriffi e auto della polizia, che riporta alla mente le sparatorie tra le strade di Hope in First Blood, culminante tra le montagne, manco a farla apposta. Solo che qui Rambo non lancia una pietra contro l'elicottero di Galt, ma trova l'accesso al livello finale nascosto dietro una parete rocciosa, che lo porterà alla resa dei conti  contro la sua nemesi: un testone sputa fuoco incassato in un muro.

Uh... proprio come visto al cinema.

Cioè dai, uguale.
Rimanendo sul bizzarro, che dire di Line of Fire (1991)? Il gioco originare è un clone di Operation Thunderbolt, con i suoi due mitra plasticoso per giocare assieme a un amico o, avendo un paio di gettoni che avanzano in tasca, da imbracciare uno per mano, per imitare il Punitore di Romita Jr.

Tuttavia su Master System la Sanritsu Electronics non se la sente e pensa bene di trasformarlo in uno sparatutto a scorrimento verticale alla guida di una jeep, un motoscafo e un elicottero Apache a seconda del livello, tutti e tre dotati di proiettili e missili.

Quanto è lento, quanto è facile...
Line of Fire è però lento e facile, nonché piuttosto avaro per quanto riguarda i fotogrammi di animazione.
La povera jeep avanza statica come poche, senza un sobbalzo, uno sbuffo di fumo dalla marmitta o un po' di polvere sollevata; più che un potente veicolo da guerra, sembra un prototipo che slitta in un laboratorio asettico e cosparso di vasellina. Gli unici momenti in cui si permette un attimo di dinamismo sono quando attraversa una rampa e vola in aria meglio del Generale Lee.
Gli ambienti ricalcano quelli visti in sala giochi, sebbene il gioco ne sia un parente lontanissimo. Sono però supportati gli occhiali 3D del Master System (SegaScope 3D) con un risultato spacca retina altalenante: niente di spettacolare sulla jeep, ma pilotare l'Apache contro il nemico finale, una enorme fortezza mobile, restituisce un certo feeling à la Thunderblade.

Eppure replicare l'arcade sarebbe stato possibile. Con una valanga e mezza di compromessi, senza dubbio, ma titoli analoghi sono usciti e non erano male affatto. Prendi Rambo III (1989), per esempio. Elitario come pochi, esige che tu sia in possesso del Light Phaser per giocare.

Badass già dalla presentazione. Che classe...
Niente mirini, solo azione diretta qui, tanto che le granate vengono attivate sparando alla relativa icona nella barra di stato. Con lo stesso sistema ci si scola la bevanda energetica che ripristina la vitalità di Rambo; questa può essere messa da parte e tracannata al momento opportuno, differentemente da quanto avveniva in Op Wolf e simili.

Cosa dicevo prima a proposito degli Hind?
Il gioco ripercorre fedelmente la trama del film attraverso sette livelli, con il salvataggio di Trautman e il combattimento finale sul confine contro un gigantesco Hind, in uno spettacolare livello a scorrimento in prima persona. L'unico punto debole sono i fondali, belli ma fissi stile carta da parati; per esempio la fuga notturna nel quinto stage vanta torri di guarda con il bagliore dei riflettori tristemente immobile, manco se fosse passato da quelle parti Dio Brando per fare le prove generali con The World.

Anche Operation Wolf (1989) è ben fatto: colori vivi e fedeli all'arcade, pochi sfarfallamenti, possibilità di usare il Light Phaser e/o il pad. Nel senso che le granate si lanciano premendo un pulsante sul pad inserito nello slot del secondo giocatore: sai che figo metterlo per terra e premerlo con il piede all'occorrenza, stile Time Crisis!
Kudos a Taito quindi, per una delle più belle conversioni apparse su Master System, assieme a sua maestà Paperboy.


Anche in questo caso la versione PC Engine rimane fuori portata, ma va ammesso che sulla console NEC non c'è traccia di lightgun, quindi quasi quasi mi azzarderei a incoronare questa come la migliore versione di Op. Wolf su console a otto bit.

E dato che siamo in vena di pistole ottiche e giungle digitali, concludiamo con quella piccola gemma di Rescue Mission (1987). Originalità al potere: il giocatore deve coprire un medico che si sbraccia a bordo di un carrello su rotaie alla volta di feriti da rimettere in sesto. Tutto attorno è un tripudio di nemici, razzi e mine da eliminare per assicurarsi che il nostro uomo faccia il suo lavoro.

Tre proiettili mandano al tappeto il nostro medico, ma a granate, razzi o mine basta un colpo.
La grafica è "fumettosa" e la colonna sonora allegra: war has never been so much fun, come avrebbero cantato in seguito Jops e soci. Il giocatore ha tre vie a disposizione, che equivalgono a altrettanti medici: il primo si muove costantemente ma cura lentamente, il secondo è lento negli spostamenti ma rimette in sesto i feriti in un lampo mentre il terzo eccelle in entrambi i campi. Il problema è la brevità dell'avventura: solo cinque stage e tre livelli di difficoltà non garantiscono una sfida duratura.

BONUS!

Così vi siete già stancati dopo questo assaggio a base di console? Mammolette, su home computer si è combattuta la guerra vera, dove pensate di andare con quel fisico? O peggio ancora: siete arrivati incolumi e tronfi di fiducia, convinti che il grosso sia fatto?

Torniamo alle basi!

Nel 1987 una Konami fiduciosa del successo del suo Track & Field è pronta a bissare il colpaccio con Combat School (Boot Camp in occidente), multi evento incentrato sulle prove da affrontare in un campo d'addestramento americano per diventare berretti verdi. 

Che poi per noi era "il gioco di Ufficiale e Gentiluomo", film che sorelle e compagne di scuola guardavano con occhi luccicanti, ma che noi maschietti non disdegnavamo, anche solo per gustarci quella roccia di Louis Gossett Jr. che maltrattava le povere reclute.
Il fatto che ''dall' Oklahoma vengono solo tori e checche" divenne quindi luogo comune, nonché frase usatissima prima di ogni partita nei campetti di tutta Italia.

Grazie a gamesdbase per la foto del coin-op originale, che vantava una doppia trackball e un fottio di pulsanti. Come complicarsi la vita inutilmente, dato che con il joystick si giocava benissimo.
Tornando a noi, è difficile definire se Konami abbia effettivamente preso ispirazione dal film di Taylor Hackford, dato che Combat School è uno dei titoli più trascurati dalla mamma di Gradius. Nessun seguito, nessuna conversione su console: solo i computer a otto bit ricevettero la loro dose di adattamenti spacca joystick da parte di Ocean nel 1988. Nel gioco due cadetti, Joe e Nick, devono guadagnarsi i gradi attraversando indenni sette prove che vanno da sessioni di tiro a segno contro bersagli fissi e droni a brutali sessioni di smanettamento lungo percorsi di addestramento più o meno folli. Dopo un salutare corpo a corpo contro l'istruttore è tempo di mettere alla prova quanto appreso in una missione ufficiale per salvare il presidente degli Stati Uniti da un gruppo di terroristi che tiene sotto assedio la Casa Bianca.

Una recluta  che puzza di latte, in missione a mani nude contro terroristi armati fino ai denti: un'idea fantastica.

A calci in faccia contro un gruppo di terroristi: God bless America.
Che poi la missione è dura come il titanio, un colpo e ciao. Niente vite, possibilità di continuare o altro: l'unica volta in cui è permesso sgarrare lievemente è nello scontro finale contro il leader dei cattivi. Arrivarci, magari...

A casa, per lo meno, va tutto bene: le conversioni sono più che dignitose su tutte le piattaforme. Così sono tutti felici, joystick a parte. C'è qualche piccola differenza, per esempio nella versione Spectrum è assente la canoa nell'iron man race, ma è presente lo sprite dell'istruttore  nelle prove di tiro.



Il coin-op originale affianca a un paio di pulsanti da torturare una trackball, bizzarra scelta che avrebbe facilitato/rese più avvincenti le sessioni al poligono di tiro, ma a casa si riusciva egregiamente a vivere senza. Quello che manca sono le voci digitalizzate dell'originale, che deliziavano i giocatori con gemme del calibro dell'iconica "go home to your mother!", proferita dal cattivissimo sergente in seguito a performance deludenti.

Proprio per la buona qualità delle conversioni, Combat School venne imitato. Nineteen Part one: Boot Camp sarebbe dovuto essere il primo capitolo di una serie militarista scritta da Cascade, ispirata al singolo di Paul Hardcastle Nineteen. Solo che la seconda parte, Combat Zone, non vide mai la luce, dato che Cascade tirò le cuoia prima. Capita, se non sei Thalamus e System 3, ma Boot Camp non brillava particolarmente, va detto. Le prove sono solamente quattro: il classico percorso di guerra, un tiro a segno dove colpire i cattivi evitando di centrare donne e bambini, un gioco di guida al volante di una jeep privo della minima sensazione di velocità e il combattimento finale contro l'istruttore.



Poca roba davvero; l'unica prova degna di nota è il poligono di tiro, a conti fatti uno dei primi casi in cui si fa fuoco in prima persona attraverso il mirino di precisione di un fucile da cecchino, videoludicamente parlando. Se la gioca con Hostages di Infogrames, anche lui uscito nel 1988 in Francia, prima di essere distribuito nel resto dell'Europa l'anno dopo.

Nato Assault Course, invece, è frutto della volontà del demonio. O di un accordo tra gli Occulti Supersovrani della CRL e la grande lobby dei fabbricanti di joystick, vai a saperlo.
Si smanetta quasi sempre, senza pietà, attraverso un percorso di addestramento popolato da militari gobbi e sgraziati che arrancano lentamente attraversando fondali blocchettosi e monotoni. Volendo a tutti i costi soffrire più del dovuto, è possibile creare il percorso della tortura dei propri sogni grazie a un pratico editor.

Poi dici che i videogiochi non pensano ai sadomasochisti.



Anche lui esce nel 1988, giusto in tempo per cavalcare il successo della conversione di Combat School.

Se proprio dobbiamo cercare l'elemento bizzarro della situazione, il premio va tutto a Action Service/Combat Course e la sua bizzarra interfaccia di gioco divisa in otto sezioni, monitor virtuali con cui gli istruttori tengono sotto controllo le reclute.


Con tanto di videoregistratore con cui riavvolgere e salvare i migliore replay su disco. Per essere brutto era brutto, ma almeno offriva varietà, con ostacoli che spaziavano dal cattivissimo Rex, pastore tedesco con licenza di mordere gli zebedei, a raid aerei e nemici da combattere con granate e dinamite.
Peccato che tutto sia decisamente legnoso, mentre gli otto monitor non fanno altro che rendere l'azione inutilmente caotica. Anche qui è presente un editor, un attimo più pratico di quello visto in Nato Assault Course grazie all'utilizzo del mouse, almeno sui sistemi a sedici bit. Il gioco è realizzato da Cobra Soft e viene distribuito da Infogrames su Amiga, ST, Amstrad CPC e Commodore 64, queste versioni caratterizzate da una certa rozzezza e mancanza di definizione, ché Cobra Soft mica c'aveva il tempo per pensare a tutto.

5 commenti:

  1. Persino meglio della prima parte! Fantastici al solito i momenti in cui contempli le assurdità come il sommergibile nel lago, your great player. Per il resto, capacità di sintesi straordinaria.

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  2. Grazie Gianluca! Poche visite finora, ma finché ne resta ALMENO uno tra i lettori fedeli, continuerò a sfornare aggiornamenti.

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  3. Questo me lo stavo perdendo. Il solito, ottimo articolo! :)

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