La storia di Capcom è troppo vasta per essere compressa entro i confini di un singolo capitolo. Con una genesi che risale al lontano 1983, il colosso giapponese vanta una sequenza ininterrotta di successi che arriva fino ai giorni nostri: elencarli tutti, anche limitandosi alle nozioni essenziali, richiederebbe un paio di volumi interamente dedicati a essa. L'importanza di Capcom nella mia vita mi ha però spinto a circoscrivere questo percorso entro una parentesi temporale più contenuta.
Non troverete dunque riferimenti a Lost Planet, Monster Hunter o ad altri titoli appartenenti a un’epoca molto più moderna, ma ripercorreremo insieme le fondamenta che hanno permesso a Capcom di diventare il colosso che conosciamo oggi, concentrandoci soprattutto sulla figura del suo carismatico fondatore. Perché, anche limitandosi a questo arco storico, c’è moltissimo da raccontare, e gran parte di queste vicende è sorprendentemente difficile da reperire online.
Per comprendere l’intuizione di Kenzo Tsujimoto è infatti necessario contestualizzare il momento della sua nascita: il 1940, a Kashihara, nelle campagne della prefettura di Nara. Sono anni decisivi, in cui la potenza militare del Sol Levante domina il sud-est asiatico con una furia colonialista che culmina nell’attacco alle navi americane di stanza a Pearl Harbor, accendendo la miccia di un conflitto destinato a cambiare per sempre il destino del Giappone e dell’intera umanità.
Kenzo, tuttavia, è inizialmente estraneo a tutto questo. Gli Alleati decidono infatti di risparmiare le ex capitali Nara e Kyoto, concentrando i bombardamenti sulla vicina Osaka e creando un contrasto quasi irreale: alla tranquillità rurale di Kashihara si oppone un orizzonte costantemente tinto di rosso fuoco. In questo scenario, Tsujimoto può permettersi un’adolescenza relativamente pacifica, almeno fino al 1954, quando il padre — un fabbro locale — muore dopo un anno di lotta contro una malattia implacabile.
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Volete brindare alla salute di Tsujimoto? Nella Napa Valley trovate la sua azienda vinicola! |
A soli quattordici anni, Kenzo è costretto ad abbandonare la scuola per aiutare la madre a sostenere ciò che resta della famiglia, lavorando in una fabbrica che produce galleggianti per la pesca. Un’esperienza dura, che però non lo spezza: al contrario, lo spinge a risparmiare ogni yen possibile per riprendere gli studi due anni più tardi. Seguono giornate estenuanti, divise tra lavoro, scuola e lezioni di judo, senza mai concedersi tregua, fino al conseguimento del diploma nel 1960.
Terminato il percorso formativo, Kenzo inizia ad aiutare gli zii nella gestione quotidiana di un negozio di alimentari, apprendendo sul campo le basi del commercio. La sua dedizione convince i parenti, ormai anziani, ad affidargli l’attività di famiglia. Ma la vita non smette di metterlo alla prova: indebitatosi per trasformare il negozio in una pasticceria e per acquistare un veicolo per le consegne — il mitico Mizetto della Daihatsu, l’equivalente giapponese della nostra Ape Piaggio — viene travolto da un’estate particolarmente torrida nel 1965. Tra caldo e insetti, le scorte vengono devastate, costringendolo a vendere tutto.
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1942 diventa un grosso successo in patria, nonostante il tema delicato. |
Ancora una volta, però, la resa non è contemplata. Pur gravato dai debiti, Tsujimoto riesce a ottenere nuovi prestiti bancari e decide di ricominciare lontano dalla rassicurante sicurezza della campagna. Con grande coraggio si trasferisce nella caotica Osaka insieme alla moglie e al figlio Haruhiro, nato appena un anno prima. Nel distretto di Sumiyoshi apre la Bottega Tsujimoto, nuovamente dedicata alla produzione di dolci, che arriva a vendere persino per strada, davanti alla stazione di Osaka, dopo l’orario di chiusura.
È però all’esterno del negozio che avviene la svolta. Una macchina automatica per lo zucchero filato, posizionata all’ingresso, cattura l’attenzione di Kenzo: i passanti si fermano incuriositi, inseriscono monetine e si divertono a vederla in funzione. In quel semplice meccanismo si cela una vera e propria filosofia: macchine capaci di regalare sorrisi e gioia in cambio di pochi spiccioli. Tsujimoto ne intuisce immediatamente il potenziale e, affidata la gestione del negozio alla moglie, decide di concentrarsi sul commercio di distributori automatici.
Col senno di poi, possiamo considerarlo il primo incontro tra Tsujimoto e l’industria del divertimento a gettone, sebbene priva di monitor e joystick. Nel 1968 acquista il suo primo distributore di zucchero filato per 15.000 yen: una pietra angolare su cui inizierà a costruirsi il suo futuro impero. Il successo è immediato. Dopo aver venduto le macchine nelle zone limitrofe, Kenzo comincia a viaggiare per promuoverle in tutto il paese.
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| SonSon di Okamoto fu il primo titolo realizzato da Capcom, ma venne posticipato per far strada allo schema di gioco più riconoscibile di Vulgus. |
Durante uno di questi spostamenti, a Fukuoka, stringe amicizia con un grossista di pachinko che gli offre un’ulteriore rivelazione. Non riguarda tanto il significato sociale di quelle rumorosissime macchine — vere e proprie valvole di sfogo per un popolo segnato dalla guerra — quanto alcune versioni modificate per i bambini, che continuavano a inserire monetine da dieci yen senza sosta. Il mondo stava cambiando: superata la carestia del dopoguerra, i giapponesi avevano bisogno di distrarsi e divertirsi, indipendentemente dall’età. E, a differenza di un bastoncino di zucchero filato, una partita ne chiamava subito un’altra, garantendo ricavi ben più consistenti.
Di ritorno da Fukuoka, Tsujimoto porta con sé un carico di plance da pachinko, che installa a Osaka e dintorni. Una volta vendute tutte, comprende che i margini sarebbero stati ancora maggiori producendo autonomamente le macchine, senza intermediari. Nasce così, nel 1974, la IPM (International Playing Machine), fondata nel quartiere di Habikino.
Non si tratta di un’attività tradizionale: IPM non è un semplice affittuario di pachinko. In un’intervista rilasciata alla rivista Game Machine nel 1977, Tsujimoto racconta come l’azienda studiasse le esigenze di ciascuno degli oltre duemila clienti per consigliare gli apparecchi più redditizi, offrendo assistenza, ricambi e suggerimenti strategici, come evitare la sovrapposizione di attrazioni identiche in locali troppo vicini. Allo stesso tempo, IPM rimane aggiornata sulle tendenze provenienti dagli Stati Uniti, come i giochi a premi e soprattutto i flipper, arrivando a installarne ben 1.500 in poche settimane.
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Fighting Street è uno dei primi due giochi sviluppati per il rivoluzionario CD-ROM del PC Engine. |
L’espansione è naturale: vengono aperte nuove succursali per gestire l’enorme volume d’affari, mentre in Kenzo prende forma il sogno di creare una propria sala giochi, l’antesignana dei moderni game center. Un’idea ambiziosa, che deve però confrontarsi con la cultura giapponese. I giochi elettromeccanici e i primi videogiochi — come i numerosi cloni di Breakout — sono solitamente relegati agli ultimi piani dei centri commerciali, meta abituale dei più giovani. Le sale da pachinko, al contrario, godono di una pessima reputazione, spesso associate a yakuza e furyō shōnen, i classici teppisti motorizzati tanto cari a Yoshihisa Kishimoto, che tratteremo in un latro capitolo.
Per affrontare il problema nasce nel 1977 la ASL (Association of Single Locations), un’associazione che riunisce le prime sale da gioco indipendenti del Giappone. Inutile dirlo, Kenzo Tsujimoto ne diventa presidente. Vengono stabilite linee guida condivise, come il divieto di erogare denaro nei giochi a premi o di convertirne le vincite in contanti. I gestori sono inoltre incoraggiati a segnalare situazioni problematiche per individuare soluzioni comuni. Ogni locale affiliato riceve infine un adesivo da esporre all’ingresso: un marchio di garanzia pensato per rassicurare il Ministero dell’Educazione, sempre più preoccupato per l’influenza di questi ambienti sui giovani.
Un’iniziativa encomiabile, purtroppo destinata a essere travolta dallo tsunami rappresentato dall’arrivo di Space Invaders nell’autunno del 1978, evento che avrebbe cambiato per sempre le regole del gioco.
Con la successiva fondazione di una nuova società, Airi, Kenzo Tsujimoto tenta di scardinare e ricostruire le abitudini ludiche del Giappone, proponendo attrazioni elettromeccaniche destinate a riempire gli spazi inutilizzati di cinema, bar e locali sufficientemente capienti. In parallelo agli sforzi profusi nella dirigenza della Association of Single Locations per rendere questi ambienti più sani e accoglienti, arginando per quanto possibile la presenza di yakuza e teppisti, le fondamenta dei futuri game center sono ormai gettate. A questo punto resta solo da trovare le macchine con cui popolarli.
Pachinko e flipper sono senza dubbio affascinanti, ma già nel 1973 iniziano ad apparire nelle grandi città i primi, timidi cloni di Pong importati dagli Stati Uniti, capaci di catalizzare l’attenzione su schermi che sembrano proiettati verso il futuro. Il Giappone non resta a guardare e, a partire dal 1976, risponde con varianti autoctone generalmente note come Block Kuzushi (“spacca mattoni”), che la stampa non esita a definire un vero fenomeno sociale.
Il potenziale di questa nuova frontiera è evidente anche a Tsujimoto, sebbene non immediatamente alla sua portata. Se IPM aveva ormai dimostrato di saper produrre tavole da pachinko con disinvoltura, lo sviluppo di videogiochi rappresentava un terreno ben più scivoloso. Desideroso di ampliare le proprie competenze, Kenzo stringe allora un’alleanza con Nanao, protagonista indiscussa del mercato giapponese dei monitor a tubo catodico. Da questa collaborazione nasce, nella primavera del 1978, Table Block: il primo videogioco di quella realtà che in futuro sarebbe diventata Capcom. Nell’autunno dello stesso anno seguirà Power Block.
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La plancia di comando di IPM Invaders con il logo della compagnia. |
Le conoscenze acquisite tramite Airi e IPM garantiscono una distribuzione significativa, ma per competere con pionieri come SEGA e Taito Tsujimoto allestisce un vero e proprio showroom nel cuore di Ebisubashi, a Osaka. Il luogo prescelto è il café Cetus, all’epoca celebre per l’eccentrica insegna al neon che simulava un vistoso muro di mattoni, proprio come quelli che il giocatore era chiamato ad abbattere in Table Block. All’interno era possibile fumare, bere alcolici e provare direttamente le novità del catalogo IPM, favorendo ogni sera l’incontro con potenziali clienti: distributori, gestori e proprietari di locali alla ricerca di qualche nuova diavoleria con cui alleggerire le tasche degli avventori.
Il successo è tale da spingere IPM a organizzare, nell’inverno del 1978, uno dei primissimi tornei di videogiochi della storia: l’All Japan TTG (Table Television Game) Championship. Solo la prima tappa, ospitata nel centro sportivo di Hiroshima, attira oltre 350 partecipanti, mentre le palestre dei licei giapponesi vengono invase da decine di cocktail table marchiate IPM e da folle di accaniti giocatori desiderosi di dimostrare le proprie abilità e conquistare il primo premio, una fiammante Mazda Savanna RX-7.
Il vero colpo da maestro, tuttavia, è la collocazione nelle sale d’attesa di due nuovi titoli: Nyankoro (adattamento ufficiale del classico Circus di Exidy) e Stardust, un gioco basato su labirinti e raccolta di oggetti. Apprezzati sia dagli “atleti digitali” in cerca di riscaldamento sia dai semplici curiosi, questi titoli fungono da cassa di risonanza per consolidare la reputazione di IPM come software house emergente da tenere d’occhio.
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Sembra Circus, ma è Nyankoro. Bene o male la stessa cosa. |
Il riscontro è straordinario, ma il mercato è ancora in uno stato embrionale: in quegli anni i videogiochi tendono a somigliarsi tutti, uno scenario che avrebbe potuto far scoppiare la bolla in qualsiasi momento. Tsujimoto, fedele alla sua mentalità innovativa, lancia nell’autunno del 1978 un concorso per aspiranti game designer, ma la risposta definitiva arriva — purtroppo — da uno dei suoi concorrenti più temibili. Nel giugno dello stesso anno debutta Space Invaders, e Taito diventa in un attimo il predatore alfa dell’ecosistema arcade.
Il fenomeno travolge chiunque, dagli scolari ai salaryman. IPM può solo affannarsi a inseguire la novità del momento, consapevole di trovarsi per la prima volta davanti a un gigante apparentemente inespugnabile. Al culmine della sua popolarità, Space Invaders e i suoi cloni rappresentano da soli l’80% dei videogiochi arcade presenti in Giappone, al punto che Taito fatica a rispettare le consegne, con fabbriche incapaci di sostenere una domanda tanto schiacciante.
Per farvi fronte, Taito concede i diritti di produzione a diverse società, tra cui IPM. Quest’ultima, però, non si limita a realizzare una copia conforme, ma sviluppa una propria versione: IPM Invaders. Un’interpretazione personale, creativa e legittimata da una licenza ufficiale, che guadagna il rispetto di Michael Kogan, presidente di Taito. Degna di nota è l’introduzione del cosiddetto Coffee Break, un intermezzo animato che scatta ogni tre livelli, permettendo al giocatore di tirare il fiato mentre gli alieni si riposano sul fondo di una stilizzata tazza di caffè, anticipando di anni gli intermezzi di Pac-Man.
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| "Ed è coffee break signori!" (cit.) |
Si tratta però dell’ultimo grande successo di IPM. Nella primavera del 1979 l’azienda viene riorganizzata e ribattezzata IREM (International Rental Electronic Machines). Il motivo è curioso: il colosso IBM chiede direttamente a Tsujimoto di modificare il nome della società per evitare confusioni. Per quanto la richiesta possa sembrare eccessiva, viene accolta: mettersi contro una realtà di tale portata sarebbe stato poco saggio.
IREM, tuttavia, cade vittima della volatilità del mercato e della fretta. Il primo titolo pubblicato, Capsule Invaders, variante di IPM Invaders con una meccanica aggiuntiva, viene prodotto in migliaia di unità proprio mentre, alla fine del 1979, il mercato viene saturato da infiniti cloni di Space Invaders. La novità svanisce, l’investimento si rivela disastroso e la nuova compagnia precipita in un baratro finanziario, accumulando un debito superiore al miliardo di yen. La guida dell’azienda passa al presidente di Nanao, Tetsu Takashima, mentre Tsujimoto è relegato al ruolo di presidente del consiglio di amministrazione: uno smacco considerevole, dopo la lunga strada percorsa.
Demoralizzato, Kenzo abbandona nel 1983, a 42 anni, la compagnia che aveva creato e fatto crescere con tanta fatica. Sarebbe potuta essere la fine della storia, se non fosse per chi aveva riconosciuto in lui una scintilla rara di intraprendenza: il russo Michael Kogan, ancora alla guida di Taito. Durante una cena di lavoro ad Akasaka, Kogan propone a Tsujimoto di entrare nel direttivo dell’azienda, ma l’offerta viene rifiutata. Kenzo ha in mente qualcosa di diverso: una nuova società capace di creare videogiochi coinvolgenti quanto i film.
Colpito da tanto coraggio, Kogan rilancia con una seconda proposta: un prestito a interesse zero di due miliardi di yen per realizzare quel sogno. Una cifra enorme, che richiede una lunga riflessione. Alla fine Tsujimoto accetta “solo” 150 milioni di yen e l’11 giugno 1983 fonda Capcom, con sede nel quartiere di Hirano, a Osaka.
Capcom — come ormai sanno anche i sassi — è la contrazione di Capsule e Computer, anche se il significato preciso del primo termine non è mai stato chiarito. C’è chi lo interpreta come una corazza, simbolo di solidità e affidabilità, o come l’idea di prodotti informatici sicuri e inviolabili. Altri vi leggono un concentrato di divertimento racchiuso in ogni gioco. Haruhiro Tsujimoto, figlio di Kenzo, ha offerto in un’intervista un’interpretazione diversa, collegando Capsule al processo di miniaturizzazione dell’elettronica, un nome dunque perfetto per una realtà destinata a rappresentare il futuro del divertimento digitale.
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| Non ho altro, e devo ringraziare Capcom Database per la foto sfocata: Little League, il primo gioco Capcom |
In modo quasi ironico, il primo prodotto Capcom non è un videogioco, ma un medal game intitolato Little League, capace di vendere 3.500 unità nello stesso anno. È anche il 1983 in cui Tsujimoto realizza un vecchio sogno, aprendo a Osaka il suo primo vero game center, l’ACTY 24. Un inizio folgorante. Da lì in poi, Capcom non avrebbe più mollato.







